Tito Lucrezio Caro e la concezione epicurea della storia
Tito Lucrezio Caro (98/94-54/50 a.C.) fu il principale esponente nel mondo romano dell’epicureismo, una dottrina filosofica che deriva in larga misura dal materialismo meccanicistico di Democrito di Abdera (V-IV secolo a.C.) ripreso (con qualche variazione) poi da Epicuro (341-270 a.C.) e dalla sua scuola filosofica. Nel seguente articolo vedremo la concezione della storia nella principale opera di Lucrezio, il De rerum natura, con particolare attenzione alla distanza dal tradizionale sistema di valori e ideali romani.
La critica della morale tradizionale. I fondamenti materialistici della filosofia epicurea pongono Lucrezio innanzitutto di fronte ad un radicale rifiuto dell’etica tradizionale: l’assenza di una prospettiva ultraterrena e tantomeno di interventi provvidenziali che agiscono sulla realtà fanno apparire vano o inutile ogni desiderio di potere o ricchezza. Essi poi mostrano l’infondatezza di molti dei valori condivisi dalla società romana come l’impegno politico, la virtù militare, la gloria e l’onore. In apertura del De rerum natura la rappresentazione di Venere può essere letta anche in questa prospettiva: la dea, che secondo la leggenda era considerata la progenitrice dei Romani in quanto madre del capostipite Enea, è descritta nell’atto di chiedere a Marte, il dio della guerra, una pace duratura per Roma; attraverso quest’immagine di Venere, simbolo di pace e di amore, Lucrezio sembra fare appello a quei principi di vita e di concordia sui quali vorrebbe fosse fondata la società romana.
«Tu dunque, o diva, ogni mio detto aspergi / D’eterna grazia; e fa’ cessare intanto / E per mare e per terra il fiero Marte, / Tu che sola puoi farlo. Egli sovente / D’amorosa ferita il cuor trafitto / Umile si posa nel divino tuo grembo. / Or; mentre lei pasce il desioso sguardo / Di tua beltà che ogni beltà avanza, / E che l’anima sua da te sol pende; / Dea porgi a lui, vezzosa dea, dea porgi / A lui soavi preghi, e fa’ che lei renda / Al popolo suo la desiderata pace.»
La critica dei valori riguardanti la guerra e l’eroismo militare compare più volte a tratti nel poema: oltre ai passi che rappresentano con toni crudi ed estremamente realistici le scene di battaglia, è significativa anche la svalutazione di personaggi della storia romana comunemente celebrati per il loro eroismo, come ad esempio Scipione l’Africano, definito “fulmine di guerra, terrore di Cartagine”, ma “costretto anch’egli dalla morte a rendere le sue ossa alla terra come l’ultimo degli schiavi”.
Al di fuori del mito. La polemica lucreziana contro il sistema di valori romani si sposta anche alla religione e al mito, da cui gli stessi valori ne traevano legittimazione. In primo luogo lo scopo che Lucrezio di prefigge è quello di smentire la convinzione che la storia sia orientata verso un fine predeterminato da un disegno divino. A questo scopo egli concepisce un excursus sull’origine e lo sviluppo dell’umanità che riveli al lettore le cause naturali di quei fenomeni che hanno dato alimento alla superstizione o che hanno condizionato – a suo parere erroneamente – la mentalità e il costume degli uomini.
Lucrezio innanzitutto nega che la vita sia stata creata dagli dei e che gli esseri mitologici siano mai esistiti; tutti i viventi, comunque, devono sempre sottostare a rigide leggi fisiche. La descrizione dell’età primitiva lucreziana si distacca notevolmente dal racconto mitico dell’età dell’oro, l’età che attribuiva agli albori dell’umanità uno stato di naturale innocenza e di benessere senza che essi venissero turbati né dalla fatica del lavoro né dalla violenza: essi vivevano isolati e obbedivano agli istinti e obbedivano alle loro necessità elementari. Fa notare Lucrezio che essi però potevano essere vittime delle bestie feroci, che potevano uccidere esattamente come al suo tempo si poteva morire in guerra o durante la navigazione in naufragio (sia la guerra che la navigazione non erano conosciute nell'”età dell’oro”). Il degrado dell’uomo viene collocato di pari passo con il progredire della civiltà. Fuoco, pelli e regole comuni prima e linguaggio, legge morale e religione dopo segnarono il passaggio allo stato civile, ma il piacere della ricchezza e del potere, degenerate in invidia, odio, violenza, soppiantarono quelli che erano i fattori di evoluzione quali ingegno e vigore fisico. Un discorso molto simile viene fatto per la religione, degenerata in angoscia e paure con il concepimento di un’immagine temibile delle divinità.
La storia dell’umanità è dunque vista da Lucrezio secondo una prospettiva di progresso, che non gli impedisce però di cogliere il ungo seguito di sofferenze ed errori di cui è segnato l’intero corso. Anche il progresso si presenta articolato nella sua valutazione, da un lato considerato come risultato dell’ingegno e della laboriosità, dall’altro biasimando le distorsioni che rendono vani gli effetti positivi.
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Fonte: De rerum natura, Tito Lucrezio Caro. Testo integrale scaricabile cliccando al seguente link.