Segni divini, interpretazione e agire umano / La divinazione fra Etruschi e Romani
Anche se viviamo in una cultura laica, nella quale la religione, i suoi riti e le sue credenze hanno uno spazio molto più ridotto che in passato, capita tuttavia di sentire – nel linguaggio parlato – espressione del tipo “se Dio vuole”. Essa è un fossile linguistico, potremmo dire, cioè quello che sopravvive, fuori dal contesto originario, di un sistema di credenze molto più ampio: una frase che rimanda a una cultura in cui la divinità ha il potere di condizionare in modo determinante la vita degli uomini, la quale può svolgersi, con tutti i suoi accadimenti belli e brutti, solo in quanto la divinità stessa, appunto, lo vuole e lo permette nella sua assoluta libertà e potenza.
Questa concezione del divino non appartiene solo alla tradizione cristiana. In molte culture antiche, comprese quelle etrusca e romana, gli uomini si chiedevano costantemente se la divinità “vuole”, cioè se l’azione che ci si prepara a intraprendere fosse o meno conforme alla sua volontà: nella convinzione che solo nel primo caso quell’azione sarebbe andata a buon fine e avrebbe raggiunto l’esito che gli uomini si ripromettevano. Sia gli Etruschi sia i Romani (che dai primi avevano imparato tutto ciò che sapevano in questo campo) erano poi convinti che scoprire la volontà degli dèi non fosse così difficile, perché gli dèi la comunicavano in molti modi. Tutto stava nel recepire e interpretare correttamente questa comunicazione e l’insieme delle tecniche usate allo scopo costituiva una vera e propria arte, la divinazione; la quale, come ogni arte, aveva degli specialisti, i sacerdoti, il cui compito specifico era l’accertamento della volontà divina.
«È un’opinione antica, risalente ai tempi leggendari e corroborata dal consenso del popolo romano e di tutte le genti, che vi siano uomini dotati di una sorta di divinazione – chiamata dai greci mantiké -, cioè capaci di presentire il futuro e di acquisirne la conoscenza.» (Marco Tullio Cicerone, De divinatione I,1)
Qualche volta, a dire il vero, l’intervento dei sacerdoti non era necessario, perché gli dèi parlavano all’interessato in modo, per così dire, diretto: potevano per esempio apparirgli in sogno, suggerendogli di fare, o più spesso di non fare, una determinata cosa. Oppure potevano parlare per bocca di individui in stato di trance, come nel tempio del dio Apollo a Delfi, in Grecia, il più famoso di questo genere del mondo antico. Qui la sacerdotessa di Apollo subiva un vero e proprio invasamento da parte del dio, il quale si esprimeva attraverso le sue parole e dava così risposta alle domande di chi lo consultava.
Di solito però la comunicazione divina era più complessa, perché potevano essere segni divini tutti i fenomeni e gli eventi insoliti: segni celesti come i fulmini, fenomeni anormali come piogge di pietre o di sangue, catastrofi come i terremoti, nascite di uomini o animali mostruosi. La cultura romana (che anche in questo si rifaceva a quella etrusca) attribuiva la massima importanza a due tipi di segni: il volo degli uccelli e le interiora degli animali sacrificati. Nel primo caso gli specialisti addetti all’osservazione e all’interpretazione si chiamavano rispettivamente di àuspici e àuguri, mentre l’osservazione delle viscere era affidata agli arùspici. Il celebre fegato di Piacenza, di origine etrusca, è un bronzo raffigurante appunto un fegato, fittamente segnato da linee che separano varie zone, in ognuna delle quali compare il nome di una divinità. La singolare scultura rappresenta insomma una sorta di manuale di divinazione a uso degli arùspici, una guida alla corretta consultazione delle viscere: a seconda di come si presentava, nella vittima di cui si esaminavano le interiora, la parte del fegato legata all’una o all’altra divinità, gli arùspici comprendevano se quella divinità era ben disposta od ostile verso gli uomini.
Una forma davvero singolare di divinazione erano gli omina. I latini così chiamavano frasi o singoli parole pronunciate da qualcuno con un certo significato, ma nelle quali qualcun altro individuava un significato nascosto, che aveva il valore di un avvertimento o di una profezia. Ecco due esempi:
Il nobile romano Lucio Emilio Paolo, proprio nel giorno in cui aveva ricevuto il comando della guerra contro il re di Macedonia Perseo, tornando a casa trovò la figlia in lacrime, e quando le chiese la ragione, la ragazza rispose che Persa, il suo cagnolino, era morto. Allora l’aristocratico abbracciò con gioia la figlia, dicendo: «Accetto il presagio (omen)». Emerge qui il carattere quasi casuale degli omina: la figlia dice «è morto Persa» alludendo al cane, ma Emilio Paolo coglie nelle parole un significato nascosto, legato al fatto che il cane porta lo stesso nome del re macedone. Senza volerlo, la bambina aveva profetizzato ciò che si verificò di lì a poco, quando Emilio Paolo sconfisse Perseo.
Un altro racconto ha per protagonista Marco Licinio Crasso, in procinto di partire al comando di un esercito alla volta dell’Oriente. Mentre nel porto di Brindisi aspettava di imbarcarsi, un venditore di fichi gridava a squarciagola «Cauneas!», cioè “fichi di Cauno”, una località orientale rinomata per questo frutto. Crasso non ci fece caso: aveva ben altri pensieri in quel momento, che mangiare fichi. Fece male, però, perché nelle parole innocenti del venditore si nascondeva un significato misterioso: Cauneas, infatti, si pronuncia in latino quasi allo stesso modo di cave ne eas, ossia “non partire”. Insomma, il grido del venditore era in realtà un omen con il quale gli dèi tentavano di mettere in guardia Crasso, che in quella guerra trovò in effetti un’orribile morte. Al contrario di Emilio Paolo, Crasso non colse l’avvertimento: partì, e il cattivo presagio, puntualmente, si avverò. Così Dio voleva…
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