L’oracolo di Apollo, le plutonie e le Sibille a Cuma
Cuma è, secondo quanto dice il geografo Strabone (V, 243), la più antica delle colonie greche della Magna Grecia: fu fondata intorno al VIII secolo a.C. (ma, secondo altre fonti, almeno due secoli prima) da coloni greci provenienti da Calcide in Eubea (Livio, VIII, 22, 5), o, secondo altri, dai greci di Kyme, città eolica dell’Asia (da cui il nome di Cuma). Divenuta una città florida e potente, dominò sulla regione flegrea e fondò Neapolis. Il suo dominio fu contrastato dagli Etruschi di Capua e dai Sanniti, sotto la cui denominazione cadde nella seconda metà del V secolo a.C. Passata sotto il dominio di Roma, divenne civitas sine suffragio nel 334 a.C., e, in seguito alla fedeltà mostrata nella seconda guerra punica, ebbe concessioni via via più ampie e infine la piena cittadinanza. Nel corso del I secolo a.C. fu un rinomato luogo di villeggiatura: vi fecero costruire le loro ville Mario, Lucullo, Cicerone e Pompeo.
L’oracolo di Apollo. In onore di Apollo i coloni greci eressero sulla sommità dell’acropoli, a picco sul mare, un tempio i cui resti sono visibili sulla terrazza inferiore del colle. Al di sotto della terrazza si apre un insieme di gallerie, cunicoli e grotte, in particolari artificiali, scavati nel tufo e rivestiti di opere murarie. Un’ampia camera circolare, sulla cui volta si aprono pozzetti di luce di forma cilindrica, fu scoperta durante gli scavi fatti tra il 1927 e il 1930 nella grotta che si apre nella parete S-W del colle, e sembrò allora corrispondere alla descrizione dell’antro della Sibilla. Tuttavia lo storico bizantino Agazia, descrivendo i luoghi, afferma che l’antro si trovava sulla parete che volge ad est. Nuovi scavi, effettuati due anni dopo, portarono alla luce proprio sul versante orientale un nuovo antro di struttura trapezioidale che era molto più antico dei precedenti ritrovati. In esso l’archeologo A. Maiuri identificò il vero speco della Sibilla. La certezza però non è mai troppa: Virgilio poteva aver attribuito un’errata datazione ai luoghi che aveva visitato, così come potrebbe aver liberamente inventato le sue descrizioni, in questo caso non corrispondenti alla realtà.
Le plutonie. Presso Cuma, vicino al lago Averno, si credeva che vi fosse anche l’apertura che portava agli Inferi. Nell’antichità si riteneva che al mondo dell’aldilà, collocato sotto la superficie della terra, si potesse accedervi attraverso speciali aperture, che venivano chiamate plutonie ed erano poste in luoghi selvaggi e inospitali. In Grecia vi erano numerosi “ingressi agli Inferi” descritti dai miti: particolarmente famosa era la caverna del Tenaro (Peloponneso), che secondo i miti sarebbe stato l’ingresso per il quale sarebbero passati Orfeo, Eracle (Ercole), e il dio Plutone dopo il rapimento di Persefone. Tra le tante altre plutonie ricordiamo quella di Ermione (sempre nel Peloponneso), dalla quale uscì Eracle con Cerbero; quelle di Atene (Colono), Trezene, Acharaka di Caria, Ierapoli di Frigia, Enna, Siracusa. Nelle plutonie poi esisteva un luogo apposito dove venivano evocate le anime dei defunti ed interrogate sul futuro, il psychomanteion.
Le Sibille e la Sibilla Cumana. Prima di esporre sulla Sibilla Cumana, la più famosa, facciamo un passo indietro e ripercorriamo la storie delle Sibille. La parola appare per la prima volta in Eraclito intorno al 500 a.C. ed era usata anticamente per designare, come nome proprio, la donna dotata di facoltà profetiche. In seguito, forse anche come effetto delle leggende che narravano i suoi spostamenti, si trovavano più Sibille in luoghi differenti, alcune delle quali hanno dei propri nomi personali. Il termine, quindi, diventa generico e indica le profetesse che vaticinavano in stato di estasi per ispirazione del dio degli oracoli Apollo. Le profezie venivano scritte in esametri greci, ed erano garantite come autentiche da acrostici. Della Sibilla Cumana Varrone dice che scriveva i suoi versi su foglie di Palma; nel poema virgiliano Enea la pregherà di non scrivere il vaticinio sulle foglie, per evitare che vadano disperse nel vento, come accadeva di frequente. Senza ombra di dubbio la Sibilla oggetto di leggende e aneddoti, come quello cui fa riferimento Trimalchione nel Satyricon di Petronio (48, 8).
Il nome Sibilla, secondo fantasiose fonti antiche, deriverebbe da siós (forma dialettale di theós, “dio”) e bólla (forma eolica per boulé, “consiglio”); il nome significherebbe cioè “colei che dà consigli ispirata dal dio”. Varrone fa un elenco di dieci Sibille: Persica, Libica, Delfica, Cimmeria, Eritrea, Samia, Cumana, Ellespontica, Frigia, Tiburtina (chiamata Albunea). La Sibilla Cumana, che Virgilio chiama Deìfobe, figlia del dio marino Glauco, sarebbe stata la più vecchia. Originaria della Troade, sarebbe venuta in Campania dopo la caduta di Troia; alcuni secoli dopo (la vita delle Sibille poteva durare anche mille anni) avrebbe venduto a Tarquinio il Superbo i libri Sibyllini, che vennero conservati da un apposito collegio sacerdotale, i Quindicenviri sacris faciundis, per poi essere consultati per ordine del Senato nei momenti di crisi dello Stato (Livio XI, 8). Anche Virgilio vi allude (VI, 71-73) accennando ai magna penetralia nei quali Enea dice alla Sibilla di voler custodire tuas sortes arcanaque fata (“le tue profezie e gli arcani del destino”). I libri sibillini vennero distrutti da un incendio nel 83 a.C. e furono quindi sostituiti da una copia. L’ultima consultazione dei libri è del 363 d.C.; infine furono tutti bruciati al tempo di Stilicone intorno al 408 d.C. (Rutilio Namaziano II, 52). Ci sono comunque pervenuti 14 libri di oracoli, che, quasi del tutto, sono prodotto di falsificazioni postume.
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