L’educazione e i riti di iniziazione dei giovani Spartani
[Immagine di copertina: Luigi Mussini, “Sparta”, 1850]
La fama di Sparta è giunta fino a noi, a ben vedere, non tanto per la struttura politica e istituzionale della città quanto per l’assoluta originalità che ne caratterizzava il sistema educativo e l’organizzazione sociale. Ancora oggi l’aggettivo “spartano” evoca i concetti di austerità, essenzialità, severità educativa: e a Sparta questo era in effetti lo stile dominante, segno di una particolarissima concezione della vita. Nel mondo antico il tasso di mortalità infantile era elevatissimo, ma a Sparta, oltre a questa selezione naturale, veniva attuata una feroce selezione di tipo sociale. Vediamo come.
Alla nascita di un bambino neppure il padre era libero di decidere se allevarlo o no (come invece accadeva “normalmente” ad Atene). Erano gli anziani della tribù che valutavano le condizioni fisiche del neonato e, soltanto nel caso in cui queste corrispondessero ai canoni della perfezione, ordinavano di allevarlo e gli assegnavano un lotto di terra, per quando sarebbe stato adulto; se invece lo vedevano deforme o lo ritenevano gracile, lo mandavano in un luogo detto apothetai (letteralmente “depositi”), presso il monte Taigeto, e lo abbandonavano alla sua sorte. Anche le madri potevano testare il grado di salute del piccolo facendogli un bagno nel vino: si credeva infatti che i malaticci non potessero resistere e cadessero in convulsioni e che i sani ne uscissero invece temprati.
La svolta decisiva nell’educazione dei bambini spartani maschi avveniva all’età di sette anni, quando venivano presi in carico dalla polis sotto la direzione del pedonomo, un magistrato addetto alla loro educazione. I ragazzini erano sottoposti a un vero e proprio addestramento, che mirava a “far entrare nella loro testa” le virtù civiche e militari, inserendoli in una specie di pattuglie, le aghelai: un termine che comunemente indica, in greco, le greggi di animali bisognosi di guida. Il percorso educativo durava tredici anni, inquadrato nell’istituzione delle agoghé: un’educazione di Stato, collettiva, in funzione della quale il bambino veniva precocemente sottratto alla famiglia per essere inserito in una comunità di coetanei. Proprio nelle aghelai, comandate da giovani spartiati, i bambini ricevevano un’educata preparazione militare e ginnico sportiva. L’obbedienza era incentrata attraverso un sistema di premi e di punizioni, con il quale si mirava a fortificare l’animo e il corpo del ragazzo, umiliandolo in caso di insuccessi ed esaltandolo in occasione dei successi, rendendolo sprezzante dei disagi fisici e nemico del lusso. L’obiettivo era sempre di sviluppare gruppi di individui adatti alla guerra, di selezionare corpi scelti di altissimo valore militare. I momenti specificamente dedicati alla socializzazione dei futuri cittadini, poi, erano i syssitia, cioè i pasti consumati in comune, ai quali ognuno dava il proprio contributo in termini di natura o economici.
Ma la vera e propria iniziazione avveniva in età adulta con la cosiddetta krypteia, ossia un periodo di allontanamento totale dal gruppo di formazione durante il quale i giovani spartiati dovevano vivere da soli senza però essere tenuti a seguire alcun codice comportamentale in particolare: il giovane doveva essere privo di qualsiasi mezzo o equipaggiamento, sopravvivendo all’aperto in zone per lo più selvagge procurandosi il necessario. Ad essere colpiti erano per lo più gli iloti (schiavi lavoratori), come può essere dedotto dal significato di krypteia (“nascondersi”, “stare in agguato”), che – da schiavi – assistevano impotenti alla superiorità fisica e sociale dello spartiata. La krypteia veniva definito come un vero e proprio “rito di iniziazione”, una sorta di prova che costituisce il confine simbolico tra vita infantile (e che infanzia!) e la vita adulta, sancita dall’ingresso nella comunità degli adulti. Nel mondo greco i riti di iniziazione, presenti dovunque, avevano un’importanza fondamentale: lo scopo primario di essi era ammettere un determinato gruppo alla conoscenza e alla pratica di un sistema di saperi e comportamenti; in altre parole, permetteva non solo ai giovani membri di una comunità di acquisire conoscenze e tradizioni che si tramandavano da generazione in generazione, ma anche di darne prova per esserne ammessi.
Volendo provare a dare un’impostazione schematica dei rituali, questi possono essere distinti in tre fasi: allontanamento, marginalità e integrazione. Nella prima fase vi è l’abbandono del luogo dove si è soliti vivere ed anche la cancellazione (una morte in vita) di tutto ciò che aveva contraddistinto la quotidianità fino a quel tempo. La marginalità era vissuta in un ambiente separato e isolato, cui gli unici legami erano con adulti scelti incaricati della formazione sociale. Con l’integrazione (terza e ultima fase), il giovane veniva finalmente accolto nel gruppo sociale, adulto tra gli adulti. Lo stesso schema si ha anche in campo di formazione femminile: ad Atene ad esempio vi erano ben tre rituali, corrispondenti all’apprendimento della tessitura, alla manipolatura del grano e alla maternità. Tra i tanti, ricordiamo in particolare l’arkteia (“fare l’orsa”): proprio come l’orsa, le bambine dovevano sviluppare un senso istintivamente aggressivo e allo stesso tempo curare i propri “cuccioli” (i figli). Anche per le ragazze si concludeva tutto con l’integrazione nella vita cittadina, alle quali spettava il ruolo di mogli e madri.
Ultimo aspetto dell’educazione nei suoi riti iniziatici è l’aspetto sociale e religioso: nel mondo antico infatti gli aspetti sacrali venivano a coincidere con quelli della vita civile. Con divinità apposite delegate all’accompagnamento dei giovani, si garantiva così l’ordine sacro che univa la città agli dei: altra funzione simbolica di tali riti era pertanto quella di offrire alla polis un degno membro che arricchiva la comunità e che rinsaldava i modelli culturali tradizionali.
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