Le magistrature in epoca repubblicana a Roma
Per poter parlare di quali erano le cariche politiche nella Roma Repubblicana dal 509 al 31 a.C., dobbiamo innanzitutto parlare di magistrature dal termine latino magister che significa maestro. Le cariche repubblicane erano per lo più elettive e temporanee, e l’ordine sequenziale delle cariche pubbliche, fu detto Cursus Honorum.
La durata temporale delle cariche derivò dal timore che la gestione della carica, protraendosi per più di un anno, potesse indurre chi la occupava a crearsi un posto di potere e costituire così un pericolo per la libertà degli altri cittadini. Inoltre le cariche non offrivano un compenso in denaro per chi la ricoprisse ma solamente un prestigio personale. Il magistrato, inoltre, non poteva essere restituito prima della scadenza stabilita per la sua durata, anche se si veniva processati per atti illeciti, ma ciò non accadeva mai. Al termine della carica, il magistrato tornava ad essere un cittadino comune e poteva essere chiamato in tribunale per rispondere delle sue azioni durante la sua carica.
Tipologie di magistrature
Vi erano magistrati curiali e non, ossia il magistrato poteva sedere sulla sella curulis, una poltrona intarsiata in avorio che ricordava il carro reale al tempo della monarchia di cui facevano uso i re. I magistrati non curiali, invece, sedevano su un semplice sgabello. Inoltre le magistrature potevano essere ordinarie o straordinarie.
Erano magistrati straordinari: il dittatore con il maestro di cavalleria, il resto erano tutti ordinari.
I magistrati curiali indossavano nei giorni normali una toga orlata da una striscia di porpora (toga praetexta), mentre nei giorni festivi una toga tutta di porpora; tutti gli altri magistrati non portavano nessun segno distintivo.
Infine, si distinguevano due categorie di magistrati: magistrati cum imperio, e magistrati sine imperio. Si tratta, per lo più, di un potere di tipo militare di natura dinamica, che conferiva al suo titolare di impartire ordini a cui il destinatario non poteva rifiutarsi. Simbolo di questo potere erano i “fasci littori”.
Tra questi furono magistrati sine imperio, vale a dire: i questori, gli edili, i censori, i tribuni della plebe, i duumviri, i tre tresviri monetales, i decemviri sacris faciundis, i decemviri agris dandis adsignandis, i decemviri stlitibus iudicandis, i triumviri capitales, i curatores viarum, i quattuorviri viarum curandarum e i triumviri coloniae deducendae.
Al contrario erano magistrati cum imperio, il pretore, i due consoli, i proconsoli, i propretori, il dittatore, il magister equitum, i triumviri rei publicae constituendae causa consulari potestate, i decemviri legibus scribundis consulari imperio, i tribuni militum consulari potestate e l’interrex.
Le cariche
Magistrati ordinari
I due consoli della Repubblica erano i più alti in grado tra i magistrati ordinari; erano eletti ogni anno (da gennaio a dicembre) dai comizi centuriati e detenevano il supremo potere sia in materia civile sia militare. Dopo la loro elezione, ottenevano l’imperium dall’assemblea. Se un console moriva durante l’anno in carica, un altro console (consul suffectus), veniva eletto per completare la durata del mandato. Durante l’anno, uno dei due consoli era superiore in grado rispetto all’altro, e questa graduatoria tra i due Consoli veniva capovolta ogni mese. Una volta terminato il mandato, deteneva il titolo onorifico di “consulare” in senato, ma doveva attendere dieci anni prima di poter essere rieletto nuovamente al consolato. I consoli presiedevano le sedute del Senato romano e le assemblee cittadine, avendo la responsabilità ultima di far rispettare le politiche e le leggi adottate da entrambe le istituzioni. Il console era anche il capo della diplomazia romana, potendo effettuare affari con le popolazioni straniere e facilitando le interazioni tra gli ambasciatori stranieri e il Senato. I consoli, disponendo della suprema autorità in campo militare, dovevano essere dotati di risorse finanziarie adeguate da parte del Senato per condurre e mantenere i loro eserciti. Mentre erano all’estero, il console aveva un potere assoluto sui suoi soldati e su ogni provincia romana.
I pretori amministravano la legge, comandavano anche le armate provinciali ed eventualmente presiedevano i tribunali. Di solito si candidavano con i consoli di fronte all’assemblea dei comizi centuriati. Dopo essere stati eletti, gli veniva conferito l’imperium dall’assemblea. In assenza di entrambi i consoli dalla città, senior e junior, il pretore urbano governava Roma, e presiedeva l’assemblea del Senato e le altre assemblee romane. Altri pretori avevano responsabilità all’estero, e spesso agivano come governatori di provincia. Fino a quando i pretori tenevano l’imperium, essi potevano comandare un esercito.
Un altro magistrato era il censore, che era preposto al censimento ogni cinque anni, durante il quale poteva nominare nuovi senatori o anche eliminarne di vecchi. Ne venivano eletti due per una durata di diciotto mesi. E poiché la censura era la carica più prestigiosa tra tutte quelle ordinarie, normalmente solo gli ex-consoli potevano ricoprire questo incarico. I censori erano eletti dai comizi centuriati, dopo che i consoli ed i pretori dell’anno avevano iniziato il loro mandato. Dopo che i censori erano stati eletti, i comizi centuriati gli concedevano il potere censorio. Non avevano l’imperium e neppure erano accompagnati dai littori. In aggiunta non avevano il potere di convocare il Senato o le assemblee romane. Tecnicamente essi si trovavano al di sopra di una classifica tra i magistrati ordinari (compresi consoli e pretori). Dal momento che si poteva abusare facilmente di questa carica (a causa del suo potere su ogni cittadino), venivano eletti solo gli ex consoli (normalmente patrizi). Questo fu il motivo per cui la carica ebbe un particolare prestigio. Le loro azioni non potevano essere bloccate con il veto, a parte quello dei tribuni della plebe o di un collega censore. I tribuni, in virtù della loro sacrosanctitas, come rappresentanti del popolo, potevano porre il proprio veto contro qualunque atto o chiunque, compresi i censori, i quali, di solito, potevano agire disgiuntamente; un censore poteva anche multare un cittadino, o anche vendere le sue proprietà, come punizione per aver eluso un censimento o per aver compiuto una registrazione falsa. Altre azioni che potevano comportare una pena censoria erano le coltivazioni agricole abbandonate, l’essersi sottratto al servizio militare, la violazione dei doveri civili, gli atti di corruzione o ingenti debiti.
Gli edili erano magistrati eletti per condurre gli affari interni di Roma, e spesso collaboravano con le più alte cariche magistratuali. Questa carica non rientrava nel cosiddetto cursus honorum, e perciò non segnava l’inizio di una carriera politica. Ogni anno, due edili curuli (formati dal 367/366 a.C.) e due edili plebei (dal 471 a.C.) erano eletti. I comitia tributa, sotto la presidenza di un magistrato di grado più elevato (un console o un pretore), eleggevano i due edili curuli, i quali disponevano entrambi di una sedia curule, ma non dei littori e neppure del potere di coercitio. Il Concilium plebis, invece, sotto la presidenza di un tribuno della plebe, eleggeva i due edili plebei. Tutti gli edili avevano ampi poteri sugli affari giornalieri interni alla città di Roma, compreso l’approvvigionamento della città di Roma, e sul mantenimento dell’ordine pubblico. Avevano potere sui mercati cittadini, sui giochi pubblici e gli eventi, nel riparare e preservare i templi, fognature, acquedotti, mantenere i registri pubblici ed emettere pubblici editti. Ogni spesa pubblica fatta da un edile curule o da un edile plebeo, doveva però essere autorizzata dal Senato.
La carica di questore era considerata il più basso grado di tutte le maggiori cariche poilitiche romane. I questori erano eletti dai Comitia tributa, normalmente prestavano assistenza sia ai consoli a Roma e chiamati perciò urbani, occupandosi dell’amministrazione del tesoro pubblico (l’aerarium Saturni), vale a dire delle entrate ed uscite finanziarie, spesso parlando pubblicamente dei saldi disponibili nella tesoreria; oltre ai governatori provinciali, nelle attività finanziarie come loro segretari, come l’allocazione delle risorse o il pagamento delle armate provinciali. I questori potevano emettere denaro pubblico per particolari necessità, solo se erano stati precedentemente autorizzati a farlo da parte del Senato. Erano, quindi, assistiti da numerosi scriba, che collaboravano nel gestire la contabilità del tesoro centrale o provinciale. Il tesoro costituiva un enorme deposito sia per i documenti sia per le riserve monetarie. Non a caso i testi delle leggi emanate o anche i decreti del Senato romano (senatus consultum), erano depositati nel tesoro sotto la custodia dei questori.
Magistrati plebei
Poiché sia i tribuni della plebe sia gli edili plebei erano eletti dal Concilium plebis, piuttosto che dall’intero popolo di Roma (che comprendeva anche i patrizi), non erano considerati dei veri e propri magistrati e non disponevano della maior potestas. Il termine “magistrato plebeo” (Magistratus plebeii) risulterebbe, pertanto, un uso improprio del termine. Erano considerati come rappresentanti del popolo, in modo che potessero esercitare un controllo popolare sugli atti del Senato (attraverso il loro potere di veto), salvaguardando la libertà civile di tutti i cittadini romani. Gli edili plebei rappresentavano in qualche modo gli assistenti dei tribuni, svolgendo spesso compiti similirai degli edili curuli. Nel tempo, tuttavia, le differenze tra le edili plebei e curuli scomparvero.
Dal momento che i tribuni erano considerati l’incarnazione del ceto medio-basso (i plebei), erano per definizione sacrosancti. La loro sacrosanctitas era rafforzata da un impegno, preso con i plebei, di uccidere chiunque avesse danneggiato o interferito con una tribuno durante il suo mandato. Tutti i poteri dei tribuni derivavano dalla loro sacrosanctitas. Un’ovvia conseguenza di ciò fu che si considerava un’offesa capitale era di danneggiare un tribuno, l’ignorare il suo veto, o l’interferire con lui. La sacrosanctitas di un tribuno (e quindi anche tutti i suoi poteri giuridici) avevano effetto solo nella città di Roma. Se il tribuno era fuori dalle mura cittadine, i plebei in Roma non potevano far valere il loro giuramento di uccidere qualsiasi persona avesse danneggiato o interferito con il tribuno. Se un magistrato, un’assemblea o il Senato, non rispettavano le disposizioni di tribuno, quest’ultimo poteva interporre la sacrosanctitas della sua persona (intercessio) per fermare quella particolare azione. Qualsiasi resistenza contro il tribuno equivaleva a una violazione del suo figura sacra, e comportava la pena di morte. La loro mancanza di poteri magistratuali li rendeva indipendenti da tutti gli altri magistrati, tanto che nessun altro magistrato poteva porre il proprio veto contro un tribuno. In un paio di rare occasioni (ad esempio durante il tribunato di Tiberio Gracco), un tribuno poté utilizzare una forma di veto estremamente ampio su tutte le funzioni governative. E mentre un tribuno poteva porre il proprio veto contro ogni atto di Senato, assemblee o magistrati, poteva solo porre il veto alla legge, non alle misure procedurali vere e proprie. Per questi motivi, doveva essere fisicamente presente quando l’atto era presentato. Non appena il tribuno non era più presente, l’atto potreva essere completato, come se non fosse mai stato posto un veto.
I tribuni, i soli rappresentanti del popolo, avevano l’autorità di rinforzare il diritto della provocatio, che rappresentava una teorica garanzia di un giusto processo, ed un precursore del nostro habeas corpus. Se un magistrato minacciava di compiere un’azione contro un cittadino, quel cittadino poteva richiedere la formula giuridica della Provocatio ad populum, che significava sottoporre la decisione del magistrato a quella di un tribuno. Un tribuno doveva, quindi, valutare la situazione e dare al magistrato la sua approvazione prima che il magistrato potesse eseguire l’azione. A volte il tribuno portava il caso davanti al collegio dei tribuni o il Concilium plebis per valutarlo meglio. Qualsiasi azione intrapresa contro una valida provocatio” era considerata illegale.
Magistrati straordinari
In caso di estrema emergenza militare (o per altri motivi), era nominato un dittatore (magister populi) per soli sei mesi. Il potere del dittatore sul governo di Roma era assoluto e non poteva essere controllato da nessuna istituzione o altro magistrato. E se Cicerone e Tito Livio ricordano l’utilizzo dei poteri militari durante una dittatura, altri, come Dionigi di Alicarnasso, ricordano l’utilizzo dei poteri per mantenere l’ordine durante la secessione della plebe. Quando vi era l’estrema necessità di nominare un dittatore, il Senato emetteva un decreto (senatus consultum), che autorizzava i consoli a nominarne uno, il quale si insediava immediatamente. Spesso il dittatore rimaneva in carica fino a quando non era cessato il pericolo, per poi dimettersi e restituendo i poteri concessigli. I magistrati ordinari (come consoli e pretori) rimanevano in carica, ma perdevano la loro indipendenza poiché diventavano dei subordinati del dittatore. Nel caso in cui avessero disubbidito agli ordini del dittatore, potevano anche essere costretti a dimettersi. E mentre un dittatore poteva ignorare il diritto della Provocatio, questo diritto, così come l’indipendenza dei tribuni della plebe, in teoria continuavano ad esistere anche durante il mandato del dittatore. Il suo potere equivaleva alla somma dei poteri di due consoli insieme, senza alcun controllo sul suo operato da parte di alcun organo di governo. Così, quando vi era questa necessità, è come se per sei mesi Roma tornasse al periodo monarchico, con il dittatore che prendeva il posto dell’antico Rex. Egli era poi accompagnato da ventiquattro littori fuori dal pomerium e dodici al suo interno (esattamente come in precedenza accadde al re), al contrario un console da soli dodici fuori dal pomerium o sei al suo interno. Il normale governo era sciolto e tutto passava nelle mani del dittatore, il quale aveva potere assoluto sulla res publica. Egli nominava quindi un Magister equitum (comandante della cavalleria) da utilizzare come suo giovane subordinato. Quando le condizioni di emergenza terminavano, il normale governo costituzionale era restaurato. L’ultimo dittatore ordinario che si ricorda venne nominato nel 202 a.C. Dopo questa data le emergenze estreme vennero gestite attraverso un decreto senatoriale (senatus consultum ultimum). Ciò sospendeva il normale governo civile e dichiarava la legge marziale, investendo i due consoli del potere dittatoriale. Ci sono molti motivi per questo cambiamento. Fino al 202 a.C., i dittatori erano spesso nominati per sedare i disordini della plebe. Nel 217 a.C., passò una legge che diede alle assemblee popolari il diritto di nominare i dittatori. Ciò, di fatto, eliminò il monopolio dell’aristocrazia (nobilitas), che vi era stato fino a quel momento. In aggiunta, una serie di leggi venner approvate, dove posero ulteriori controlli al potere del dittatore.
Ogni dittatore nominava un magister equitum (comandante della cavalleria), che lo servisse come suo luogotenente. Egli deteneva un’autorità costituzionale (imperium) pari ad un pretore, e spesso, quando era nominato un dittatore, il senato specificava che doveva essere nominato anche un magister equitum. Egli aveva funzioni similari ad un console, quindi subordinato al dittatore. Quando scadeva il mandato del dittatore, allo stesso modo cessava anche quello del comandante della cavalleria. Spesso il dittatore prendeva il comando della fanteria (quindi delle legioni), mentre al magister equitum rimaneva quello della cavalleria disposta alle ali dello schieramento romano. Il dittatore non era quindi eletto dal popolo, ma come abbiamo visto sopra da un console. A sua volta il magister equitum era un magistrato nominato direttamente dal dittatore. Tanto che entrambi questi magistrati possono essere definiti come “magistrati straordinari”.
Fonti
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