Antica RomaEtà Repubblicana

La truffa dei finti naufragi di Pyrgense e Veientano (212 a.C.)

Tito Livio racconta nella sua storia di Roma di un episodio avvenuto tra il 212 e il 211 a.C., in uno dei momenti più critici della seconda guerra punica, quando due pubblicani – Marco Postumio Pyrgense e Tito Pomponio Veientano – organizzarono una truffa ai danno dello Stato. Gli episodi erano sempre analoghi e si sarebbero ripetuti con una certa frequenza, così come sarebbero stati ripetuti i tentativi di condurre in tribunale i truffatori o di insabbiare e pilotare i processi.

The Shipwreck – Joseph Mallord William Turner – olio su tela – 1805

«I consoli [del 212 a. C.] non poterono [adempiere il loro primo dovere, che era quello di] arruolare le truppe a causa del processo di M. Postumio Pyrgense, che giunse quasi a provocare una sommossa. M. Postumio Pyrgense era un appaltatore che per diversi anni non aveva avuto rivali, fatta eccezione per T. Pomponio Veientano, quanto a disonestà e avidità di denaro. Questi due appaltatori approfittarono in modo criminale del fatto che i carichi che trasportavano gli eserciti verso la Spagna erano assicurati dallo Stato contro il rischio di tempeste. Essi denunciavano naufragi che in parte erano del tutto inventati, in parte erano veri solo perché non erano stati fortuiti, ma deliberatamente provocati da loro stessi. Caricavano navi vecchie e incapaci di reggere il mare con poche merci privi di valore, le affondavano in alto mare dopo aver trasferito gli equipaggi su barche predisposte allo scopo e per i carichi perduti denunciavano un valore molte volte superiore a quello reale. La frode era stata denunciata al pretore M. Emilio Lepido e costui ne aveva puntualmente riferito al Senato; ma il Senato si era astenuto dall’approvare una risoluzione di condanna, perché non voleva offendere, in momenti così critici, la catena degli appaltatori. Il popolo ebbe meno esitazioni, e alla fine due tribuni della plebe furono indotti ad agire nei confronti di quello che, per loro ammissione, era un odioso e infame imbroglio.»

Gli imputati e gli accusatori. I principali imputati per la truffa ai danni dello Stato, come riportato dalla fonte, erano pubblicani, ossia esponenti di società private che svolgevano compiti amministrativi per conto dello stesso Stato romano come riscossione di tasse, sfruttamento di cave, boschi e miniere, costruzione di strade e forniture per l’esercito. L’attività pubblicana, anche nei secoli successivi, si macchiò non di rado di vari abusi che colpivano soprattutto i contribuenti provinciali.

Publicani dell’Antica Roma

Ad esempio, nella riscossione dei tributi essi anticipavano all’Erario la somma che lo Stato prevedeva di ricevere per poi recuperarla con gli interessi (estorcendo più denaro del dovuto e intascando tutta la differenza). Non è un caso dunque, se i pubblicani erano particolarmente odiati dalla popolazione; così come non è un caso se il Senato si asteneva da un’esplicita condanna verso chi garantiva lo svolgimento dei compiti amministrativi provinciali.

I processi e la sentenza. I processi si svolse in un clima di grande tensione, e vi parteciparono sia la popolazione che i pubblicani (parteggiando ognuno la rispettiva categoria); la folla era tale che riusciva ad occupare l’intero Campidoglio. Gli imputati speravano di poter contare sull’appoggio di uno dei tribuni della plebe, Servilio Casca, parente di Postumio (e suo socio in affari) ma questi decise (a detta di Livio o per paura o per vergogna) di non intervenire. Ascoltate le arringhe e le testimonianze, i due tribuni della plebe Spurio e Carvilio proposero una multa di 200.000 assi, ma a causa delle intemperanze mostrate dai sostenitori degli accusati (che rischiavano di sfociare in una vera e propria sedizione) la sentenza fu rinviata.

«Stava ormai per scoppiare un tumulto, quando il console [Q.] Fulvio [Flacco] urlò ai tribuni: «”Non vedete che siete stati deposti [in ordinem coactos esse, cioè siete stati degradati] e che, se non sciogliete subito il concilium plebis, ci sarà una sedizione?”»

Questa non tardò comunque ad arrivare: gli imputati furono condannati prima al pagamento di un’ingente cauzione per il rilascio (a patto di presentarsi alle convocazioni) o incarcerati laddove non riuscissero a presentare garanzie. Essi non si presentarono mai in giudizio e furono condannati in contumacia all’esilio e i loro beni furono confiscati dallo Stato. Coloro che invece erano coinvolti nelle sommosse ai processi furono incarcerati (indipendentemente che potessero fornire garanzie o meno) per poi scegliere la via dell’esilio permanente, che prevedeva la confisca dei beni e la perdita (sempre permanente) permanente dei diritti civili. Le decisioni della condanna, che poteva sembrare non tanto scontata agli occhi degli accusatori dato il coinvolgimento indiretto di esponenti altolocati, stavano proprio nel fatto che gli imputati avevano passato il limite del “legalmente tollerabile”, non solo approfittando dello Stato, ma di defraudarlo in un momento, quello della seconda guerra punica, di grande bisogno e di non riconoscerne le sue decisioni facendo ricorso all’uso della violenza e minando l’ordine pubblico.

«I consoli riferirono che il concilium plebis era stato disciolto dall’audace ricorso alla violenza da parte dei pubblicani…. [Essi informarono il Senato che] Postumio Pyrgense aveva strappato dalle mani del Popolo romano il suo diritto di voto, aveva posto fine a un concilium plebis, deposto i tribuni, dichiarato guerra al Popolo romano e occupato una posizione con l’intento di isolare i tribuni della plebe e di impedire che le tribù fossero convocate per esprimere il loro voto. Essi fecero osservare che si doveva solo alla pazienza dei magistrati se era stata evitata una sommossa, con relativo spargimento di sangue. I magistrati avevano per il momento lasciato che alcuni individui sfogassero la loro furia e la loro temerarietà; essi avevano tollerato che fossero sconfitti loro stessi e il Popolo romano e avevano volontariamente messo fine ai comitia – che un criminale aveva chiaramente mostrato di voler ostacolare con la forza delle armi – per non lasciare alcuna giustificazione alle fazioni che puntavano allo scontro.»

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Articolo correlato: Come si svolgevano i processi nell’antica Roma?

Antonio Palo

Laureato in 'Civiltà Antiche e Archeologia: Oriente e Occidente' e specializzato in 'Archeologie Classiche' presso l'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'. Fondatore e amministratore del sito 'Storia Romana e Bizantina'. Co-fondatore e presidente dell'Associazione di Produzione Cinematografica Indipendente 'ACT Production'. Fondatore e direttore artistico del Picentia Short Film Festival.

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