La toilette femminile in età romana
Il bagno. Nell’antica Roma il bagno privato era un lusso riservato solo ai ceti più abbienti: in sua sostituzione vi erano – per chi non poteva permetterseli – i bagni pubblici e poi le terme, dove si facevano i loro bagni di pulizia uomini e donne: le più grandi terme erano dei veri e propri luoghi d’incontro, e queste disponevano di una serie di strutture attigue che si prestavano a questo scopo come biblioteche, palestre, piccoli teatri per esibizioni). Solo a partire dall’età di Adriano, in seguito al sorgere di alcuni scandali, le autorità romane imposero degli orari distinti per uomini e donne nelle terme che erano sprovviste di spogliatoi doppi e sale separate per i bagni. La presenza di un’unica grande piscina natatoria non mancò di suscitare pettegolezzi tra le stesse donne, alcune delle quali smisero di frequentare le terme; casi simili verranno ripresi in età tardo-antica, quando incominciò la figura della donna che facesse il bagno cominciò ad essere considerata come un segno di impudicizia.
Per la toilette si usavano la spugna (spongia) e alcuni detergenti come lo struthium, un estratto della radice della saponaria, o la cresta fullonica, la soda o aphronitum, la lascivia o cenere di faggio, la farina di fave, il lomentum o direttamente la pietra pomice (pumex), detergenti che però erano fortemente abrasivi e che comportavano la necessità di cospargere dopo ogni bagno il corpo con oli profumati al fine di restituire alla pelle morbidezza ed elasticità. Gli odori preferiti erano quelli dolci, floreali e allo stesso tempo forti e persistenti, che oltre a funge da disinfettanti servivano anche a coprire gli odori sgradevoli di luoghi spesso con fogne a cielo aperto o molti animali in libertà.
La pulizia dei denti.
«Posso dirvi d’aver cura dei denti, di non ridurli per pigrizia neri, di sciacquarvi la bocca ogni mattina?»
Ecco una delle raccomandazioni che il poeta Ovidio [Ars Amatoria, III, 197-8] rivolge alle giovani donne perché siano più gradevoli allo sguardo e allo stesso tempo all’olfatto dei loro innamorati. La cosa era importante anche per un uomo. Scrive Apuleio in merito:
«Per un libero e liberale cittadino non c’è cosa più sconveniente della sozzura della bocca. Essa è la parte eccelsa del corpo umano, la prima cosa che si veda. È l’organo di cui l’uomo si serve più spesso, sia che baci qualcuno o che discorra o parli in pubblico o rivolga nel tempio la preghiera a Dio».
Per l’igiene della bocca e dei denti si usava una polvere, il dentifricium, che generalmente era a base di nitro, soda e bicarbonato di sodio. Venivano usati anche gli antenati degli attuali stuzzicadenti, chiamati dentiscalpia, che potevano essere di legno, di metallo o di piuma (i più ricchi se li facevano fare in oro o in argento). Abbiamo anche notizia di una particolare usanza di alcuni popoli (Iberi e Celtiberi) che si sfregavano di buon’ora le gengive con l’urina della notte: un’usanza disgustosa agli occhi dei Romani, come dimostra anche la satira di Catullo nel carme 39, contro un tale Egnazio, un celtibero che svolgeva questa pratica.
«Visto che Egnazio ha denti bianchi suole ridere d’ogni cosa. In faccia al banco dell’imputato, quando l’oratore suscita il pianto, Egnazio se la ride. Al lutto di un pio figlio, mentre piange la madre orbata dell’unico conforto, Egnazio se la ride. Sempre, ovunque,qualunque cosa accada, se la ride. Ha questa malattia inelegante, anzi, io credo, da vero screanzato. Io ti devo avvisare, buon Egnazio: se fossi tu sabino o tiburtino, un romano di Roma, un umbro parco, un etrusco grassone, un lanuvino scuro dai grandi denti, un transpadano, per citare una volta i miei parenti, uno qualunque che si lavi i denti con acqua pura, ti consiglierei di non ridere. Niente di più scemo di un riso scemo. Ma tu sei spagnolo. Nella terra di Spagna quel che ognuno piscia, suole sfregarselo al mattino sopra denti e gengive, a farle rosse, e dunque questa vostra dentizione tanto è pulita, quanto è più abbondante il piscio che vi avete incorporato».
«Che di ispidi peli pungenti non sia mai la vostra gamba» [Ars Amatoria, III, 194]
«Contro le rughe si deve usare il latte di asina. Si sa che certe donne vi curano le guance sette volte al giorno, facendo ben attenzione a questo numero. Fu Poppea, la moglie dell’imperatore Nerone, a inaugurare questa moda, facendone uso anche per il bagno, e per questo in viaggio si portava dietro mandrie di asine.Gli sfoghi di acne si eliminano spalmandovi burro, meglio ancora se vi si mescola biacca.Contro le lentiggini si deve usare bile di capro mescolato a formaggio di capra con zolfo vivo e cenere di spugna fino ad ottenere la densità del miele.Le macchie di vitiligine si eliminano pungendole con un ago e applicandovi poi bile di cane».
«La maggior parte delle loro attività si consuma nell’acconciare i capelli: alcune, grazie a sostanze in grado di accendere le chiome del rosso del sole a mezzogiorno cambiano colore ai capelli come fanno con le lane mediante un fiore giallo, disprezzando le loro doti naturali; quante invece si appagano della loro chioma nera consumano il patrimonio dei mariti per poter effondere dai capelli quasi tutti i profumi d’Arabia; con strumenti in ferro poi riscaldati dolcemente a fiamma bassa costringono i capelli ad arricciarsi in boccoli».
«Vedo poi talune donne tingersi i capelli color zafferano. Esse si vergognano della loro nazione: di non essere nate in Germania o in Gallia. Così mutano la loro patria grazie ai capelli. Fanno a se stesse un cattivo, anzi un cattivissimo augurio col color fiamma, credendo di imbellire ciò che imbrattano. La potenza delle sostanze nuoce ai capelli bruciandoli. L’applicazione ripetuta di qualsivoglia liquido, anche se puro, è rovinosa per il cervello, allo stesso modo in cui lo è il desiderabile ardore del sole che ravviva e asciuga i capelli. Quale avvenenza vi può essere, quando vi è danno? Quale leggiadria con delle sozzure? Una donna cristiana dovrebbe mettere sul suo capo dello zafferano come su di un altare? […] Dice il Signore: “Chi di voi può rendere i propri capelli neri da bianchi o bianchi da neri?” [Matteo 5, 16]. E queste donne confutano la parola di Dio dicendo: “Ecco invece che da bianchi o neri noi li rendiamo biondi, per farli più graziosi”».