Nel II secolo d.C. il diritto gentilizio delle età antiche cadde in disuso: totum gentilicium ius in desuetudinem abiit e dei princìpi sui quali si basava la famiglia patriarcale della vecchia Roma, la parentela agnatizia e la potenza illimitata del paterfamilias, nulla sussiste se non certe reminiscenze diremo così archeologiche.

E mentre un tempo era parentela legittima soltanto quella creata dalla discendenza maschile, o agnatio, ora essa si estende anche alla cognatio, o parentela per parte di donna, e supera i limiti delle nozze legittime (iustae nuptiae).

Alla fine della repubblica la madre si era vista riconoscere il diritto formale al rispetto da parte dei figli, al pari del padre. Le formule del pretore le avevano attribuito il diritto di custodia della propria prole, tanto nel caso di tutela, quanto nel caso di cattiva condotta del marito.

Sotto Adriano, un senato-consulto promosso da Tertulliano stabiliva che la madre, quando aveva tre figli, acquistava il diritto alla successione ad intestato di ciascuno di essi, anche se erano nati fuori dal matrimonio, qualora il defunto fosse privo di eredi e di fratelli consanguinei. Infine, sotto Marco Aurelio, il senato-consulto Orfitiano, pubblicato nel 178, chiama espressamente alla successione della madre i figli di lei, i quali, qualunque fosse la validità dell’unione da cui erano nati, avevano la precedenza sugli “agnati” del morto. Questo è il punto d’arrivo dell’evoluzione che aveva intaccato l’antico sistema delle successioni civili, e che infine, sovvertendo le concezioni fondamentali della famiglia romana, consacra in essa il diritto del “sangue” nel senso in cui le società moderne gli han dato la prevalenza. A Roma la famiglia è ormai fondata sulla coniunctio sanguinis, perché secondo la bella anticipazione di Cicerone nel De officiis, tale comunità naturale era la più propria a tener legati gli esseri umani con la benevolenza reciproca e l’amore (et benevolentia devincit homines et charitate).

In questo stesso periodo, i due caratteri essenziali della patria potestas: l’autorità assoluta del padre sui figli e l’autorità assoluta del marito sulla donna data in suo potere (in manu) come se fosse una delle sue figlie (loco filiae), si erano gradualmente attenuati; e bisogna convenire che nel II secolo d.C. erano già spariti.

Nei rapporti con i figli il paterfamilias è ora decaduto dal diritto di vita e di morte che le Dodici Tavole e le leggi sacre attribuite ai re gli avevano accordato; possiede ancora senza dubbio l’orribile facoltà – che gli sarà ritolta soltanto, per la benefica influenza del cristianesimo, nel 374 d.C. – di esporre i neonati nelle pubbliche discariche, dove essi morivano di fame e di freddo a meno che la pietà d’un passante, messaggero e strumento del favore divino, non venga a raccoglierli e salvarli in tempo; senza dubbio, quando è povero ricorre facilmente, come un tempo a questa forma aleatoria di infanticidio legale, e malgrado le proteste isolate di qualche predicatore stoico, come Musonio Rufo, continua a esporre senza rimorsi soprattutto i propri bastardi e le proprie figlie. Certe iscrizioni del regno di Traiano danno come ammessi all’assistenza alimentare nella prima metà, in una stessa città e in uno stesso anno, solo due illegittimi, o spurii, contro 179 legittimi, e su questo totale solo 34 femmine contro 145 maschi: l’unica spiegazione evidente di tale sproporzione è data dal rapporto inverso delle “esposizioni”, di cui erano vittime assai più spesso gli illegittimi e le figlie. Ma una volta che aveva risparmiato i figli all’atto della nascita, il paterfamilias non poteva in seguito sbarazzarsene più, né con la vendita della mancipatio, che un tempo li votava al servaggio e che non era più tollerata – se non a titolo di finzione legale per fini opposti, di emancipazione o di adozioni -, né con un’esecuzione capitale. Quest’ultima, ammessa ancora nel primo secolo a.C. – come resta dimostrato dalla sorte di un complice di Catilina, Aulo Fulvio -, era divenuta nel frattempo un delitto capitale. Prima che Costantino desse egual valore al parricidio e all’assassinio del figlio da parte del padre, Adriano aveva punito con la deportazione in un’isola un padre che, durante una partita di caccia, aveva ucciso il figlio, che pure era colpevole di aver disonorato le sue seconde nozze. E l’imperatore Traiano ne aveva costretto un altro, che aveva semplicemente maltrattato il figlio, a emanciparto subito e a rinunciare per l’avvenire a ogni eventuale eredità da parte di lui.

Così dopo la fine della repubblica, l’emancipazione del figlio aveva una portata e un senso del tutto nuovi. Invece d’essergli comminata come una pena – che, per quanto inferiore alla morte o alla schiavitù, restava ancora molto dura, poiché, rompendo i legami fra il ragazzo e i suoi parenti, lo colpiva con un ostracismo dalla famiglia che non poteva non concludersi con la privazione dell’eredità – gli veniva devoluta come un vantaggio. Grazie alla giurisprudenza pretoria della bonorum possessio, stabilita all’inizio del principato, la emancipazione lo rendeva capace di acquistare o gestire dei beni senza peraltro privarlo della successione paterna. Fino a quando aveva avuto l’aspetto di un castigo, i padri di famiglia l’avevano usata con riluttanza; ma quando divenne per i loro figli un beneficio di cui i padri dovevano sopportare le spese, si misero a praticarla correntemente. Una volta ancora le leggi si erano modellate sui sentimenti e l’opinione pubblica, che ormai riprovava i crudeli rigori del passato, esigeva dalla potestà del padre, ai tempi di Traiano e di Adriano, solo quella pia tenerezza con la quale un giureconsulto del III secolo finirà per identificarla: patria potestas in pietate debet, non in atrocitate consistere.

Ciò era più che sufficiente per rinnovare l’atmosfera della famiglia romana e dare ai rapporti fra padre e figli una sfumatura di dolcezza affettiva tanto lontana dalla durezza e dal rigorismo disciplinare, di cui Catone il Vecchio aveva dato l’esempio nella sua casa, di quanto è invece vicina all’amicizia sorridente che fiorisce oggi nelle nostre case. Se si scorre la letteratura contemporanea, la si trova piena di questi esempi di padri di famiglia la cui autorità si traduce in indulgenza e di figli che in presenza dei padri vivono a modo loro, padroni di se stessi.

Plinio il Giovane, i cui matrimoni restano sterili, domanda per i figli dei suoi amici un’indipendenza di condotta e di maniere che non avrebbe ricusato ai suoi, sia perché era entrata nel costume sia perché tra la gente “a modo” ciò faceva parte della buona educazione: “Un tale rimproverava aspramente suo figlio – egli scrive – perché spendeva troppo nel comprar cavalli e cani. Quando il giovine fu uscito, io dissi al padre: – Ehi, tu non hai mai fatto nulla che potesse esserti rimproverato da tuo padre?”.

Certo, Plinio il Giovane non aveva torto di predicare una mansuetudine, o, se si vuole, un liberalismo che incontra il nostre favore; ma avvenne che i romani non seppero mantenere la misura, né si contentarono di attenuare la loro severità, ma cedettero a moti inconsiderati di eccessiva compiacenza. Rinunciando a dirigere i loro figli, si lasciarono dirigere da loro, e ritennero di compiere il loro dovere dissanguandosi per soddisfare le fantasie della loro progenie; e riuscirono solo a creare dopo di sé deli oziosi e scialacquatori, come quel Filomuso di cui Marziale ci racconta le disavventure e che, dopo aver ottenuto d’un colpo la successione del padre, si trovò subito in condizioni peggiori che non al tempo in cui riceveva giorno per giorno un generoso assegno: “Ti dava duemila sesterzi al mese tuo padre, Filomuso. Un tanto al giorno dei pigliavi. […] Tuo padre muore e tutto il suo ti gira: Filomuso, non t’ha lasciato una lira”.

Disgraziatamente non erano soltanto i patrimoni a far le spese dell’individuo che allora trionfava; fin dal II secolo d.C. esso aveva indebolito in Roma la tempra del carattere; e mentre scompare il duro viso del paterfamilias tradizionale, si fa più frequente la ridicola figura del figlio di famiglia, questo eterno fanciullo viziato dalle società che hanno contratto l’abitudine del lusso e perduta quella della disciplina. Peggio ancora, si vede già profilarsi la sinistra figura del padre che per amore del guadagno non teme affatto di calpestare le speranze della sua stirpe e di corrompere sistematicamente gli adolescenti che sarebbe stata sua missione educare. Tale fu il caso del grande avvocato Regolo, rivale e avversario di Plinio il Giovane. Regolo aveva soddisfatto tutti i capricci del figlio, gli aveva fatto costruire una canora uccelliera di merli, usignoli e pappagalli, che cantavano e parlavano; gli aveva comprato cani di tutte le razze; gli aveva procurato poneys gallici per la biga e l’equitazione. Non appena morì sua moglie, le cui immense ricchezze avevano pagato i suoi regali, si affrettò a emancipare il figlio perché il giovane potesse entrare in possesso della fortuna materna, goderne sconsideratamente e lasciarla infine al proprio padre uscendo da una vita che le folli prodigalità avrebbero abbreviato.

Certamente in questo caso si trattava di una mostruosità eccezionale di cui Plinio si mostra scandalizzato. Tuttavia è già troppo che si sia verificata, e questo non sarebbe potuto avvenire se le donne non fossero state affrancate, quanto i figli e anche più, dalla solidarietà che un tempo l’esercizio della patria potestas aveva imposto alla famiglia romana, che si dissolse insieme a quella.

By Simone Riemma

Studente del corso in Civiltà Antiche ed Archeologia: Occidente dell'Università degli Studi di Napoli - Orientale. Sono CEO e founder dei siti: - www.storiaromanaebizantina.it assieme al mio collega dott. Antonio Palo (laurea in archeologia) - www.rekishimonogatari.it assieme alla dott.ssa Maria Rosaria Formisano (laurea magistrale in lingua e letteratura giapponese e coreana) nonché compagna di vita. Gestisco i seguenti siti: - www.ganapoletano.it per conto dell'Associazione culturale no-profit GRUPPO ARCHEOLOGICO NAPOLETANO Le mie passioni: Storia ed Archeologia, Anime e Manga.

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