La morte di Annibale (183 a.C.) nei racconti di Nepote e Livio
Dopo la sconfitta riportata nella Seconda Guerra Punica, che costò a Cartagine il crollo della sua potenza economica e la perdita di ogni possedimento al di fuori del continente africano, Annibale cadde in disgrazia in patria e si rifugiò prima presso il re seleucide Antioco III (195 a.C.) e poi in Bitinia presso il re Prusia (189 a.C.). I Romani cercarono sempre di catturarlo, convinti che finché fosse stato in vita egli, da acerrimo nemico, avrebbe potuto sempre tendere loro delle insidie. Come già fatto con Antioco III, Roma inviò dei suoi ambasciatori in Bitinia (183 a.C.) per chiedere al re che Annibale fosse consegnato. Il re Prusia non si oppose alle richieste degli ambasciatori, non volendo contravvenire al diritto di ospitalità, e li invitò dunque a cercare loro stessi Annibale nel territorio del suo regno, rendendone così possibile la cattura. Il condottiero cartaginese, però, non riuscì a fuggire in tempo e, accortosi di non avere scampo, preferì uccidersi con il veleno.
«Annibale dimorava in un unico luogo, un castello che il re gli aveva donato e di cui aveva modificato la struttura, in modo da avere una via di uscita da ciascuna parte, evidentemente nel timore che accadesse ciò che poi accadde. Giunti qui gli ambasciatori romani, circondato il castello con una moltitudine di uomini, uno schiavo, guardando dalla porta, avvertì Annibale che scorgeva guardie più numerose del solito. Questi gli ordinò di fare il giro di tutte le porte, e di comunicargli immediatamente se era ugualmente bloccato da ogni parte. Avendogli lo schiavo rapidamente riferita la situazione, e rivelato che tutte le vie d’uscita erano presidiate, comprese che ciò non avveniva per caso, stavano cercando lui, occorreva dunque rinunciare subito alla vita, e non lasciarla all’arbitrio altrui: perciò, memore dell’antico valore, bevve un veleno che era sempre solito avere con sé. […] Così quell’uomo arditissimo, dopo aver portato a compimento molte e varie imprese faticose, morì a settant’anni. Non sono d’accordo gli storici per stabilire durante quale consolato sia morto. E infatti Attico lasciò scritto nel suo Annale che morì sotto il consolato di Marco Claudio Marcello e Quinto Fabio Labeone, mentre Polibio lasciò scritto che morì sotto il consolato di Lucio Emilio paolo e di Gneo Bebio Tanfilo; Sulpicio Blitone sotto il consolato di Publio Cornelio Cetego e Marco Bebio Tanfilo. Inoltre questo uomo così grande e impegnato in guerre così importanti dedicò del tempo agli studi letterari. Infatti ci sono alcuni suoi libri scritti in lingua greca, tra questi un libro dedicato ai Rodiesi sulle imprese di Gneo Manlio Vulsone in Asia. Molti consegnarono alla memoria le sue imprese di guerra […].» [Nepote, Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium, XXIII, Hannibal, 12-13]
Il tragico epilogo che ci giunge dal racconto di Cornelio Nepote, teso e conciso, sintetizza con efficacia il coraggio e la determinazione dello storico, che anche in altre parti della biografia, aveva riconosciuto ad uno dei più grandi e temibili nemici di Roma. Nepote forse subisce l’influsso della storiografia ellenistica, solitamente “favorevole” ad Annibale: egli tende a porre l’accento sul suo valore militare e sulle sue capacità strategiche (tanto da arrivare a definirlo vir fortissimus), e a non enfatizzare i vizi che la tradizione romana era solita attribuire, come ad esempio – nel caso di Annibale – la crudeltà e la slealtà, sulla quale insisterà molto Tito Livio.
«Il luogotenente T. Quinto Flaminino giunse dal re Prusia, sospetto ai Romani sia per avere accolto Annibale dopo la fuga di Antioco sia per avere mosso guerra contro Eumene. Là fra gli altri addebiti a Prusia da Flaminino era stato contestato sia il fatto che presso di lui si trovava l’uomo più pericoloso per il popolo Romano di tutti quelli che vivevano, il quale era stato il sobillatore di una guerra contro il popolo Romano prima per la sua patria, poi, annientato il suo esercito, per il re Antioco; sia il fatto che Prusia stesso, per compiacere il presente Flaminino e i Romani, prese la decisione di ucciderlo per conto suo e di condurlo sotto la sua potestà; dopo il primo colloquio i soldati di Flaminino furono subito inviati a sorvegliare la dimora di Annibale. Egli aveva sempre previsto nell’animo una tale morte, vedendo l’odio implacabile dei Romani nei suoi confronti, non confidava affatto nella lealtà dei re: in verità aveva anche sperimentato la leggerezza di Prusia: anche l’arrivo quasi dettato dal destino di Flaminino lo aveva spaventato. Per ripararsi da ogni evenienza minacciosa, aveva sempre pronto qualche piano di fuga, aveva costruito sette uscite dalla casa, e di queste certe erano nascoste, perché non fossero sorvegliate e sbarrate. Ma il deciso comando dei re porta a quello che essi desiderano scoprire. Così i soldati cinsero di guardie l’intero perimetro della casa, in modo che nessuno da lì potesse fuggire. Annibale dopo che gli fu annunciato che i soldati erano nella parte anteriore della casa, tentò di fuggire nella parte posteriore, in quanto assai fuori mano e nascostissima vi era un’uscita, e non appena si rese conto che anche quella era stata sbarrata dal sopraggiungere dei soldati e che tutto intorno dalle guardie erano state dislocate delle chiusure, chiese il veleno che molto tempo prima aveva preparato per tali evenienze. “Libereremo il popolo Romano dal lungo affanno, dal momento che trovano ragionevole attendere a lungo la morte di un vecchio. Flaminino riporterà una vittoria né grande né memorabile su un vecchio inerme e tradito. Quanto sono davvero cambiati i costumi del popolo Romano, e questa giornata ne sarà una prova. I padri di questi avvertirono il re Pirro, un nemico armato, che aveva l’esercito in Italia, di guardarsi dal veleno: questi hanno inviato un luogotenente ex console per ottenere da Prusia la morte di un ospite attraverso un misfatto”. Dopo avere maledetto la testa e il regno di Prusia, e invocando gli dei degli ospiti come testimoni della lealtà violata da quello, bevve il veleno fino in fondo. Tale fu la morte di Annibale.» [Livio, Ab Urbe Condita, XXXIX, 51]
[X]