La battaglia di Pistoia e la morte di Catilina (62 a.C.)
Antefatto. Dopo la scoperta della congiura e la condanna dei Catilinari a Roma, il Senato ordina al console Antonio di muovere con l’esercito contro Catilina, che si porta nel territorio di Pistoia, con il proposito di rifugiarsi nella Gallia Transalpina. Per contrastare questo tentativo, Quinto Metello Celere gli sbarra, con tre legioni, la strada verso nord e quindi la battaglia diventa inevitabile. Prima dello scontro, che si annuncia durissimo e dall’esito definitivo, Catilina parla ai suoi soldati: improntato a nobiltà e fierezza di accenti nel racconto di Sallustio, il discorso rivela in lui una grandezza d’animo che completa tragicamente la sua immagine, riscattandone i vizi e avvolgendola di un alone quasi eroico. Nel contrapporsi ai suoi nemici, Catilina ricorda le ragioni che rendono la battaglia estrema ma necessaria: «noi lottiamo per la patria, per la libertà, per la vita; per essi è un sovrappiù il combattere per la potenza di pochi». Nelle sue parole riecheggia ciò che lui stesso aveva detto, rivolgendosi ai congiurati, in un precedente discorso: «dopo che la Repubblica è caduta nel pieno potere di pochi potenti, è a loro che re e tetrarchi pagano i loro tributi, popoli e nazioni pagano l’imposta: tutti noi altri, valorosi, prodi, nobili e non nobili, siamo stati volgo, senza credito, senza autorità, asserviti a padroni ai quali, se lo Stato valesse, avremmo incusso timore». Profilandosi una battaglia in cui la fortuna può battere la virtù, Catilina ricorre alle più svariate risorse dell’arte oratoria per infiammare gli animi, disporli al coraggio, alla resistenza più accanita e, se necessario, a una morte dignitosa.
«So bene, soldati, che le parole non donano il coraggio, e che nessun esercito da ignavo diventa strenuo, né forte da timoroso per un discorso del comandante. Questa audacia è nell’animo di ciascuno per natura o per indole, tanta è solita rivelarsi in guerra. Si esorterebbe invano chi non è infiammato né dalla gloria né dai rischi; la paura gli occlude le orecchie. Ma io vi ho chiamati per darvi brevi consigli e insieme per svelarvi la ragione della mia scelta. Sapete certamente, soldati, quanta rovina ci abbiano arrecato la mollezza e la viltà di Lentulo, e in qual modo l’attesa dei rinforzi dalla città m’ha impedito di marciare verso la Gallia. E ora in quale situazione ci troviamo lo comprendete tutti con me. Ci si oppongono due eserciti nemici, uno dalla città, uno dalla Gallia. Rimanere più a lungo in questi luoghi, anche se l’animo lo sopportasse, ci è impedito dalla mancanza di frumento e di altro. Dovunque vogliamo andare, dobbiamo aprirci la via con il ferro. Perciò vi esorto a essere di animo strenuo e pronto a tutto, e quando entrerete in battaglia, ricordate che avete in pugno la ricchezza, l’onore, la gloria e inoltre la libertà e la patria. Se vinciamo, tutto sarà sicuro per noi: avremo viveri in abbondanza, i municipi e le colonie ci apriranno le porte. Ma se cederemo alla paura, tutte quelle stesse cose ci si faranno avverse, né vi sarà luogo o amico che protegga chi non sarà stato difeso dalle sue armi. Inoltre, soldati, soldati, noi e loro siamo sovrastati dalla stessa necessità; noi lottiamo per la patria, per la libertà, per la vita; per essi è un sovrappiù il combattere per la potenza di pochi. Perciò con maggiore slancio assaliteli, memori dell’antico valore. Avreste potuto trascorrere in esilio la vita con sommo disonore; alcuni, persi i loro beni, avrebbero potuto sperare di vivere a Roma della liberalità altrui. Ma poiché ciò sembrava turpe e intollerabile per dei veri uomini, sceglieste di affrontare questo pericolo. Se volete uscirne, c’è bisogno di audacia, nessuno, se non vincitore, poté mutare la guerra nella pace. Infatti, sperare salvezza nella fuga, quando hai sviato dal nemico le armi che ti proteggono le membra, è pura follia. Sempre, in in battaglia, è più grave il pericolo per coloro che hanno il maggior timore; l’audacia è un baluardo. Quando vi guardo, o soldati, e rivolgo nel mio animo le vostre imprese passate, mi prende una grande speranza di vittoria. L’animo, l’età, il valore vostri mi infondono fiducia, e pure la necessità che rende forte anche i timorosi. Per di più l’angustia del luogo impedisce alla moltitudine dei nemici di circondarci. Che se la fortuna si rifiuterà di assecondare il vostro valore, badate di non perdere la vita invendicati, e piuttosto di lasciarvi prendere e trucidare come bestie, combattendo da uomini lasciate al nemico una vittoria insanguinata e luttuosa» [Sallustio, De Catilinae coniuratione, 58]
La battaglia e la morte di Catilina. Pistoia, 5 gennaio del 62 a.C.: l’esercito repubblicano guidato dal luogotenente Marco Petreio si scontra con le truppe dei congiurati.
«Petreio, quando vede che Catilina, contrariamente a quel che aveva creduto, combatteva con grande energia, lancia la coorte pretoria contro il centro dei nemici […]. Catilina, quando vede le sue truppe in rotta e se stesso rimasto con pochi uomini, memore della sua stirpe e della sua passata dignità, si getta dove i nemici erano più folti e ivi lottando è trafitto.»
L’azione di tutta l’opera sallustiana non può che concludersi con la morte del suo protagonista; poi resta da contemplare il campo di battaglia disseminato di cadaveri.
«Ma, conclusa la battaglia, allora davvero avresti potuto vedere quanto ardimento e quanta forza d’animo vi fosse stata nell’esercito di Catilina. Infatti ciascuno pressappoco quel posto, che da vivo aveva occupato durante il combattimento, ora, persa la vita, lo copriva con il corpo. I pochi, però, che la coorte pretoria aveva disperso nel mezzo, erano caduti un po’ più lontano, ma comunque tutti con ferite frontali. Insomma di tutta l’armata né in battaglia né in fuga fu catturato alcun cittadino libero: in tal modo tutti quanti avevano risparmiato la vita loro e dei nemici. E tuttavia l’esercito del popolo romano non aveva ottenuto una vittoria propizia o incruenta. Infatti tutti i più coraggiosi o erano caduti in battaglia o se ne erano allontanati gravemente feriti. Molti poi, che erano usciti dall’accampamento per fare una ricognizione o per fare bottino, rigirando i cadaveri dei nemici alcuni ritrovavano un amico, altri un ospite o un parente; allo stesso modo vi furono quelli che riconoscevano nemici personali. Così, in vario modo per tutto l’esercito si agitavano felicità, afflizione, dolore e gioia.» [Sallustio, De Catilinae coniuratione, 61]
Un’amara constatazione. Il pericolo catilinario fu sicuramente debellato una volta per tutte, ma proprio per questo, a battaglia conclusa, la valutazione sallustiana dell’accaduto può essere più imparziale in rapporto a cui si pongono queste ultime tragiche immagini. Catilinari e soldati dell’esercito senatorio risultano accomunati da un’unica fine e, soprattutto, da una paritetica manifestazione di valore e coraggio. In definitiva, dice Sallustio, sono pur sempre morti dei Romani, cittadini valorosi che hanno perso la vita per la difesa di un progetto (pur “criminale”) voluto e sostenuto fino alla morte. Non esistono tuttavia spazi per la rivalutazione dei congiurati, ma questi, spogliati delle connotazioni politiche, riemergono come uomini, amici, parenti, o nemici. Sono morti dei Romani, e Sallustio acuisce il sapore amaro di una vittoria parziale, non incruenta, e la dolente constatazione di quante potenzialità umane, pur distorte dai fini deprecabili della congiura, siano state sprecate e siano andate definitivamente estinte.
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