La battaglia di Farsalo nel “De Bello Civili” di Cesare
La battaglia di Farsalo vista con gli occhi di Cesare…
La vigilia della battaglia. Pompeo giunse a Larissa, in Tessaglia, nei primi giorni d’agosto dell’anno 48 a.C. e lì si riunì al suocero Scipione. Nei capitoli 82 e 83 Cesare traccia un quadro grottesco di quanto avviene nel campo nemico: nell’imminenza della battaglia decisiva, combattuta il 9 agosto a Farsalo, l’evento decisivo della guerra civile, i capi pompeiani, già sicuri della vittoria, si spartiscono il futuro bottino e discutono animosamente tra di loro anche dell’assegnazione di onori e cariche politiche. Tutta la parte dedicata alla battaglia di Farsalo, è condotta da Cesare in maniera molto calibrata: contro Pompeo non lancia accuse pesanti ed evita di denigrarlo, limitandosi solo a ridimensionarne la figura, ridicolizzandola con grande eloquenza nel suo racconto e nell’esposizione dei fatti. Riguardo al suo operato, Cesare ribadisce lo stato di necessità in cui si è venuto a trovare, dando la colpa ai suoi nemici, e afferma la volontà di arrivare alla pace e di trattare con benevolenza gli sconfitti.
«Pompeo giunge in Tessaglia pochi giorni dopo e, tenuto un discorso davanti a tutto l’esercito, ringrazia i suoi ed esorta i soldati di Scipione, dal momento che la vittoria era già assicurata, a essere partecipi della preda e dei premi e, dopo avere riunito in un solo campo tutte le legioni, divide con Scipione l’onore del comando e ordina che anche per lui squillino le trombe e che per lui venga allestita una seconda tenda pretoria. Aumentate le truppe di Pompeo e congiuntisi due grandi eserciti, viene confermata la precedente opinione di tutti e cresce la speranza di vittoria, così che ogni momento che passava sembrava ritardare il ritorno in Italia e se talora Pompeo agiva troppo lentamente o ponderatamente, dicevano che il compimento della guerra non richiedeva che un giorno solo, ma che egli si compiaceva del comando e che teneva in conto di schiavi gli ex consoli e pretori. E già da tempo apertamente contendevano fra loro ricompense civili e cariche religiose e stabilivano i consolati per gli anni successivi; altri richiedevano le case e i beni dei Cesariani.»
La leggerezza di Pompeo e Tito Labieno. Pompeo, arringando i soldati prima della battaglia, espone brevemente la tattica che intende seguire, ma la sua esposizione semplificata degli scenari mostra tutta la sua superficialità nel sottovalutare Cesare: ancora una volta, l’inferiorità dell’avversario è suggerita da Cesare tramite l’evidenza dei fatti e non attraverso valutazioni personali. All’incapacità di Pompeo si aggiunge poi quella dei suoi ufficiali, come Tito Labieno (luogotenente di Cesare in Gallia): questi prende la parola dopo Pompeo e formula un discorso il cui unico fine è quello di sminuire il nemico agli occhi dei suoi soldati, facendo intendere una certa convinzione dello scarso valore delle truppe di Cesare.
«Anche Pompeo, come poi si venne a sapere, su esortazione di tutti i suoi, aveva stabilito di venire a battaglia. E infatti, anche nel consiglio di guerra, nei giorni precedenti aveva detto che l’esercito di Cesare sarebbe stato annientato prima che le schiere si scontrassero. Essendosi molti meravigliati di questa affermazione, disse: “So di promettere una cosa quasi incredibile, ma sentite il piano che ho ideato, affinché andiate alla battaglia con animo più saldo. Ho consigliato ai nostri cavalieri, e mi hanno dato assicurazione che lo avrebbero fatto, di dare l’assalto, quando si sia arrivati molto vicini, all’ala destra di Cesare, ossia dalla parte scoperta, e, una volta aggirata la schiera alle spalle, di mettere in fuga l’esercito disorientato prima che dai nostri venga scagliata una freccia contro il nemico. E così senza pericolo per le legioni e quasi senza spargimento di sangue concluderemo la guerra. La cosa inoltre non è difficile dal momento che siamo tanto più forti nella cavalleria”. Contemporaneamente li ammonì di stare pronti per il giorno successivo e, poiché vi era possibilità di combattere, come spesso avevano chiesto, di non deludere né la sua né l’altrui aspettativa.
Dopo di lui parlò Labieno e, disprezzando le milizie di Cesare, esaltando con somme lodi il piano di Pompeo, disse: “Non credere, o Pompeo, che questo sia l’esercito che ha vinto la Gallia e la Germania. Io fui presente a tutte le battaglie e non dico sconsideratamente cose non conosciute. Sopravvive una piccolissima parte di quell’esercito; il grosso è andato perduto, il che doveva necessariamente accadere in tante battaglie; molti li ha distrutti in Italia la pestilenza dell’autunno, molti sono tornati a casa, molti sono rimasti nel continente. Forse non avete sentito dire che fra quelli rimasti per motivi di salute sono state formate coorti a Brindisi? Queste milizie che vedete sono state formate con le leve fatte in questi anni nella Gallia Citeriore e la maggiore parte proviene dalle colonie transpadane. Del resto quella che era la sua forza si è perduta nelle due battaglie di Durazzo”. Dopo avere detto ciò, giurò di non fare ritorno al campo se non da vincitore e esortò gli altri a fare lo stesso. Pompeo, lodando questo proposito, fece lo stesso giuramento; e invero fra gli altri non ci fu nessuno che esitò a giurare. Fatto questo nel consiglio di guerra, tutti si allontanarono con grande speranza e gioia; e già pregustavano nel pensiero la vittoria, poiché sembrava che nulla potesse essere garantito invano da parte di un comandante tanto esperto a proposito di un fatto così importante.»
L’arringa di Cesare. Molto diversa da quella di Pompeo è l’arringa di Cesare, che ricorda a tutti i suoi soldati tutti i tentativi e gli sforzi compiuti per cercare la pace e di come egli abbia fatto sempre di tutto per risparmiare perdite umane per non privare la Res Publica dei suoi eserciti.
«Esortato l’esercito alla battaglia secondo il costume militare e messi in evidenza i propri meriti verso l’esercito in ogni tempo, principalmente rammentò che poteva provare con la testimonianza dei soldati con quanto zelo aveva cercato la pace, quali trattative aveva condotto per mezzo di Vatinio negli abboccamenti, quali per mezzo di Aulo Claudio con Scipione, in che modo si fosse adoperato con Libone presso Orico perché si mandassero ambasciatori. Egli non aveva mai abusato del sangue dei soldati né aveva voluto privare la repubblica dell’uno o dell’altro esercito. Tenuto questo discorso, poiché i soldati lo richiedevano e ardevano dalla brama di combattere, diede con la tromba il segnale.»
La disfatta dei Pompeiani. L’esercito di Pompeo era più numeroso di quello di Cesare e si trovava in posizione favorevole. Cesare, temendo soprattutto la cavalleria nemica, aveva deciso di aggiungere alle tradizionali tre linee dello schieramento una quarta linea da tenere di riserva. La tattica d’attesa adottata dai Pompeiani, che mirava a disperdere i nemici e a sfinirli obbligandoli alla corsa, si rivelò fallimentare poiché, secondo Cesare, non ha saputo sfruttare lo slancio proprio delle truppe agli inizi di ogni battaglia. I Pompeiani non solo falliscono il loro assalto, ma non reggono quello dei Cesariani e mandano in campo la cavalleria, cercando di aggirare la loro ala destra. Cesare fa però intervenire le truppe di riserva della quarta linea che, dopo aver attaccato alle spalle l’ala sinistra pompeiana, riescono a metterli in fuga. Seguì ancora un altro assalto di Cesare, che con truppe fresche circondò i nemici e li sbaragliò definitivamente. Quando Pompeo vede che la cavalleria, su cui egli aveva puntato moltissimo, è in rotta, abbandona il campo di battaglia e si ritira nel suo accampamento. Le sue truppe si ritirano disordinatamente o verso le montagne circostanti o verso lo stesso accampamento – dove sostavano soldati traci e ausiliari barbari – che capitolerà dopo un breve scontro. Cesare, da parte sua, mira a dimostrare come la sua vittoria sia stata l’effetto della sua lungimiranza strategica e della tattica che è stata eseguita magistralmente e con tempestività dalle sue truppe sul campo di battaglia.
«Tra le due schiere vi era rimasto solo lo spazio che bastava ai due eserciti per venire all’attacco. Ma Pompeo aveva precedentemente detto ai suoi di aspettare l’assalto di Cesare e di non muoversi dalla posizione e di lasciare che l’esercito di Cesare si scompaginasse. […] Ma invero ci sembra che Pompeo abbia fatto ciò senza nessuna ragione, poiché per natura sono innati in tutti l’entusiasmo e l’esuberanza che vengono accesi dal desiderio di battaglia. I comandanti non devono reprimerli, ma potenziarli; e non invano nell’antichità si stabilì che le trombe squillassero da ogni parte e tutti quanti levassero grida; si pensò di atterrire con questi mezzi i nemici e di incitare i propri soldati.
Ma, dato il segnale di attacco, i nostri soldati, avanzati di corsa con i giavellotti contro i nemici e accortisi che i Pompeiani non andavano all’assalto, pratici per esperienza e ammaestrati in battaglie precedenti, spontaneamente rallentarono e si fermarono quasi a metà distanza per non avvicinarsi stremati e, dopo un breve intervallo di tempo, ripresa nuovamente la corsa, lanciarono i giavellotti e rapidamente, come era stato ordinato da Cesare, misero mano alle spade. […] Nello stesso tempo, come era stato ordinato, tutti i cavalieri dal lato sinistro di Pompeo si lanciarono all’assalto e si riversò tutta la moltitudine degli arcieri. La nostra cavalleria non sopportò il loro assalto, ma, respinta dalle sue posizioni, indietreggiò un poco e i cavalieri di Pompeo cominciarono, perciò, a incalzare […] Quando Cesare si accorse di ciò, diede il segnale di combattimento alla quarta fila che aveva formata con sei coorti. Quelle coorti si lanciarono con prontezza e, in schieramento di assalto, con tanta irruenza assalirono i cavalieri di Pompeo che nessuno di loro resistette e tutti, fatto “dietro front”, non solo si allontanarono dalla posizione, ma subito fuggirono, dirigendosi verso i monti più alti. Respinti questi, tutti gli arcieri e i frombolieri, abbandonati senza protezione e senza armi, vennero uccisi. Col medesimo impeto le coorti aggirarono il lato sinistro, mentre i Pompeiani ancora combattevano e resistevano nel loro schieramento iniziale, e li attaccarono alle spalle.
Nel medesimo tempo Cesare ordinò di avanzare alla terza fila che fino a quel momento era rimasta in riposo e ferma nella sua posizione. E così ricevendo i soldati sfiniti il cambio di forze fresche e riposate, mentre gli altri assalivano alle spalle, i Pompeiani non furono in grado di reggere e si diedero tutti alla fuga. Cesare invero non si era ingannato nel pensare che il principio della vittoria dipendeva da quelle coorti che erano state dislocate nella quarta fila contro la cavalleria, come egli stesso aveva affermato nell’esortare i soldati. Da queste coorti infatti dapprima fu sbaragliata la cavalleria, dalle medesime furono annientati arcieri e frombolieri, dalle medesime fu circondata la schiera pompeiana dal lato sinistro e fu provocato l’inizio della fuga nemica. Ma Pompeo, quando vide la propria cavalleria respinta e si accorse che era in preda al terrore quella parte dell’esercito su cui sopra tutto confidava, e, non avendo inoltre fiducia negli altri, si allontanò dal campo di battaglia e subito si diresse a cavallo nell’accampamento e a quei centurioni che aveva posto di guardia presso la porta pretoria disse a voce alta perché i soldati lo udissero: “Proteggete l’accampamento e difendetelo con zelo, se le cose dovessero volgere al peggio. Io faccio il giro delle altre porte per rassicurare i presidi dell’accampamento”. Dopo avere detto queste parole, se ne andò nella tenda pretoria, persa la fiducia nell’esito finale, ma tuttavia aspettando gli eventi.
Cesare, respinti dentro il vallo i Pompeiani in fuga, stimando non opportuno lasciare tregua ad essi in preda al terrore, esortò i soldati a sfruttare il favore della Fortuna, assalendo l’accampamento. Ed essi, sebbene affaticati dal grande caldo (infatti la battaglia si era protratta fino a mezzogiorno), tuttavia disposti a ogni fatica obbedirono al comando. L’accampamento era difeso con zelo dalle coorti che qui erano state lasciate di presidio, ma molto più strenuamente dai Traci e dalle truppe ausiliarie barbare. Infatti i soldati che, provenienti dalla battaglia, qui si erano rifugiati, atterriti e sfiniti dalla stanchezza, per lo più senza armi e insegne militari, pensavano più a riprendere la fuga che a difendere il campo. E anche quelli che si erano fermati dentro il vallo non furono in grado di sostenere troppo a lungo la fitta pioggia di dardi, ma prostrati dalle ferite abbandonarono la posizione e tutti subito, con a capo centurioni e tribuni militari, si rifugiarono sulle vette dei monti vicini all’accampamento.»
La battaglia di Farsalo si conclude con la fuga disordinata dei Pompeiani e con l’assalto dei Cesariani al campo nemico. Pompeo fugge dall’accampamento, compiendo atti disonorevoli e avendo ormai perso la lucidità necessaria per valutare equamente le responsabilità e le colpe dell’accaduto.
«Nell’accampamento di Pompeo si poterono vedere pergolati di frasche, una grande quantità di argenteria esibita, tende pavimentate con zolle di erba fresca, le tende di Lucio Lentulo e di alcuni altri coperte di edera e inoltre altre cose che testimoniavano un lusso eccessivo e la fiducia nella vittoria, così che facilmente si poteva pensare che i nemici, che cercavano piaceri non necessari, non avevano avuto alcun timore per l’esito di quella giornata. Eppure costoro criticavano il lusso dell’esercito di Cesare, quanto mai povero e paziente, cui erano sempre mancate tutte le cose di prima necessità. Pompeo, quando ormai i nostri erano all’interno del vallo, trovato un cavallo, gettate le insegne di comandante, se ne andò rapidamente dal campo per la porta decumana e si diresse subito a sprono battuto verso Larissa. Né qui si fermò, ma, imbattutosi in alcuni dei suoi in fuga, con la medesima velocità, senza fermarsi neppure di notte, accompagnato da trenta cavalieri giunse al mare e si imbarcò su una nave frumentaria, spesso lamentandosi, come si diceva, di essersi tanto ingannato così da sembrare quasi tradito, poiché a iniziare la fuga erano stati proprio quegli uomini dai quali aveva sperato la vittoria.»
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