Il “principe” e il “principato” dalla Res Publica romana al Rinascimento
Il termine “principe” deriva dal latino princeps che significa “primo”, “preminente”, “migliore”. Nel corso della storia romana il vocabolo ha avuto utilizzi e significati differenti. In generale, esso veniva usato per indicare il capofila di un gruppo di persone. In ambito politico, durante la prima fase della Repubblica, il princeps senatus (“principe del Senato”) era il più autorevole tra i senatori e aveva il diritto di intervenire per primo nel dibattito in aula. In epoca tardo-repubblicana, invece, con l’espressione principes civitatis (“principi della città”) venivano designati i cittadini più importanti dello Stato, distintisi nella sfera pubblica per meriti civili o militari: di questo titolo poterono fregiarsi Cesare e Pompeo che, grazie all’autorità acquisita, detenevano a tutti gli effetti le redini del potere.
Ma è con Ottaviano che il termine princeps assume un nuovo significato, tanto che la forma di governo nata con le sue riforme viene definita “principato”. Augusto, infatti, è allo stesso tempo sia princeps civitatis sia princeps senatus e quindi, in quanto individuo più eminente dello Stato per ricchezza e autorità, può votare per primo in assemblea, influenzandone le decisioni. Egli pone alla base del proprio potere l’idea del “governo del migliore”, che agisce grazie al consenso dei cittadini e si presenta come garante della tradizione repubblicana, di cui mantiene le istituzioni e le magistrature. Ma, facendosi attribuire alcuni poteri speciali, come la tribunicia potestas e l’imperium proconsolare, si assicura rispettivamente l’inviolabilità personale e il potere militare, e avvia un processo di trasformazione dello della forma dello Stato romano, che porta alla progressiva affermazione della “monarchia assoluta”, ossia il potere concentrato nelle mani di un solo individuo.
Il termine princeps non scompare dal vocabolario occidentale con la caduta dell’Impero romano, ma rimane in uso accanto al titolo di rex, per indicare il massimo rappresentante del potere politico. Nel Medioevo fiorisce un vero e proprio genere letterario legato alla figura del principe: si tratta degli specula principis (“specchi del principe”), una serie di trattati il cui intento principale è quello di tracciare un ritratto ideale del sovrano, indicandone le virtù morali che sono necessarie per diventare un buon sovrano (cristiano). A partire dal X secolo d.C., in seguito alla dissoluzione dell’Impero carolingio e all’affermazione del feudalesimo, alcuni membri della nobiltà che riescono a rendere ereditario il potere sul proprio feudo cominciano ad attribuirsi il titolo di “principe”. Da quel momento l’uso del termine si estende alla società aristocratica e viene utilizzato per indicare il grado più alto della nobiltà feudale.
Ancora un significato differente assume il termine “principe” nell’Italia centro-settentrionale dove, sul finire del XIII secolo, per porre fini ai ripetuti contrasti cittadini, alle lotte intestine e alla conseguente paralisi delle istituzioni comunali, si va affermando l’uso di concentrare il potere nelle mani di una sola persona, il signore, membro delle famiglie più nobili e in vista della regione. Alcune di queste famiglie riescono, nel corso del Rinascimento, a fondare delle vere e proprie dinastie e a formare entità statali di carattere regionale che ricevono la legittimazione da parte imperiale e papale. Nascono così i “principati”, destinati a caratterizzare la vita politica italiana fino alla fine del XVIII secolo. Alla figura del sovrano rinascimentale italiano Niccolò Machiavelli dedicò un trattato, Il Principe (1513), che rappresenta ancora oggi uno dei massimi esempi di analisi politica e di riflessione sulla funzione del potere.
Oggi, dopo tanti rivolgimenti storici e sociali, non resta a sopravvivere che il mito della vita principesca nell’immaginario collettivo, che di fatto non è altro che una mitizzazione del fascino di un’aristocrazia dal ruolo spesso soltanto simbolico e politicamente marginale.
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