I Visigoti nell’Impero e la disfatta di Adrianopoli (378)
Antefatto. Sotto i successori di Giuliano, verso la metà degli anni settanta, gli Unni, una popolazione nomade che veniva dal cuore dell’Asia, iniziò a spostarsi progressivamente verso occidente premendo sulla tribù germanica dei Visigoti. Di fronte alla minaccia unna i Visigoti si videro costretti a chiedere di passare i confini imperiali romani (frontiera danubiana). In questo momento storico l’Impero, ancora unito, era amministrativamente diviso tra gli imperatori Graziano e Valente, regnanti rispettivamente su Occidente e Oriente. Valente, di fronte alle richieste dei Visigoti, fu costretto ad ammetterli nell’Impero: da un lato lo stesso Impero non era in grado di impedire l’accesso alle tribù germaniche, dall’altro i Visigoti avrebbero potuto costituire un cuscinetto utile a respingere la minaccia unna. La convivenza tra Visigoti e Romani fu sin da subito molto problematica e sfociò ben presto in una vera e propria rivolta costellata da ripetuti saccheggi ai danni delle città romane da parti dei primi e dalla corruzione dei funzionari dei secondi. Sicuro di avere la meglio sui Visigoti, che stavano devastando l’intera Tracia e Mesia, l’imperatore Valente decise, senza attendere i rinforzi dell’imperatore d’Occidente, di affrontarli con le truppe radunate a Costantinopoli da impiegare per una campagna militare contro i Persiani. Sino ad allora la superiorità della tattica militare era stata indiscutibile, ma il 9 agosto 378 ad Adrianopoli avvenne la catastrofe: i Visigoti, superiori di numero, annientarono l’esercito romano che era stato mandato allo sbaraglio con grande imprudenza; lo stesso imperatore Valeriano perse la vita.
La battaglia. Come anticipato, i rapporti di forza era nettamente favorevoli ai Goti. La battaglia iniziò male per i Romani: un reparto di cavalleria leggera, arbitrariamente e senza seguire alcun ordine, decise di condurre una carica contro l’ala sinistra dei Goti. In base a questo avventurismo tattico l’ala sinistra dei romani dovette rincorrere a marce forzate quella destra, sfiancandosi in un’inutile corsa. Per di più la controffensiva dei cavalieri goti fu vincente, abbattendosi sull’ala sinistra della fanteria romana che, comunque, resistette con ordine. Al contrario la cavalleria leggera romana iniziò a ripiegare e a nulla valse la controffensiva di quella pesante; alla fine i Goti riuscirono a neutralizzare del tutto la cavalleria di Valente, che si diede alla fuga. Nel mezzo della pianura rimase così solo la fanteria con al centro il campo dell’imperatore. Dopo ore di resistenza l’ala di sinistra di quella cedette e lo stesso campo militare di Valente si trovò accerchiato con a sua difesa due legioni. La fanteria residua non aveva speranza, ma resistette agli attacchi della cavalleria visigota al solo scopo di salvare Valente. Ne venne fuori una battaglia all’ultimo uomo e un massacro terribile. Solo in quel punto del campo di battaglia persero la vita migliaia romani e tra quelli l’intero stato maggiore dell’esercito dell’oriente (i generali Sebastiano e Traiano tra quelli) oltre a trentadue tribuni militari; ma l’effetto militare generale fu ancora più grave: l’esercito romano si sbandò del tutto e moltissimi fuggirono, disertarono o furono catturati dai Germani e dai loro alleati. Nella battaglia l’esercito romano perse immediatamente ventimila uomini ma la disgregazione e disorganizzazione che si produssero dopo Adrianopoli e nei dintorni di Adrianopoli provocarono l’annientamento di altri ventimila effettivi, tra diserzioni, catture e uccisioni. Valente, colpito da una freccia, cercò rifugio in un casolare ma morì combattendo, senza essere riconosciuto, con i pochi uomini rimasti in sua difesa.
Conseguenze. I Visigoti dilagarono nella parte orientale dell’Impero fino a Costantinopoli e, dato curioso e allo stesso tempo riflessivo, il racconto dello storico Ammiano Marcellino che, dopo la battaglia, molti dei contadini della regione si recarono spontaneamente dai Visigoti per segnalare quali ville patrizie avrebbero potuto saccheggiare: questo dimostra chiaramente, in chiave politica interna, quanto fossero lontane la base della società dalla classe dominante.
La sconfitta ebbe ripercussioni fatali. Dopo Adrianopoli, il nuovo imperatore d’Oriente Teodosio, succeduto a Valente, non ebbe altra scelta che formalizzare la presenza dei Visigoti all’interno del territorio imperiale (in Tracia e Mesia Inferiore), accordando loro (nel 382) lo status di foederati: sulla base di un patto che li vincolava a precisi obblighi nei confronti dell’Impero, i Visigoti si impegnavano a non attaccare i sudditi dell’Impero e a contribuire alla difesa delle frontiere dei territori da loro occupati. La propaganda imperiale presentò questa scelta come vantaggiosa e strategicamente vincente: i “barbari” passavano da nemici che erano a difensori “a costo zero”. Questa scelta politica era comunque un’arma a doppio taglio, poiché da un lato i popoli accolti erano portati ad alzare il prezzo della loro neutralità o sostegno militare, mentre dall’altro la classe dirigente romana si consegnava nelle mani di soldati barbari nella speranza di giungere a controllarle (anche a vantaggio personale). Negli anni successivi l’infiltrazione barbarica permise a molti goti di prendere posizioni di potere nell’esercito e nella burocrazia imperiale, ponendo le premesse per la nascita di una classe dirigente romano-germanica.
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