Dissensi, condanne e delatori: Nerone e la congiura Viniciana (66 d.C.)
La più conosciuta congiura ai danni dell’imperatore Nerone è sicuramente quella dei Pisoni nel 65 d.C., che una volta fallita sembrò, dato il grande coinvolgimento e le molte implicazioni di vari esponenti romani, non lasciare spazio ad alcuna forma di opposizione senatoriale efficace all’autorità imperiale. Successiva alla congiura dei Pisoni, le fonti tramandano un’altra congiura fallita: la congiura Viniciana.
Il racconto degli storici. Tacito e Svetonio si limitano rispettivamente a citare Barea Sorano e Senzio Saturnino (che sappiamo essere – volenti o nolenti – coinvolti in questa vicenda) o come implicato in una congiura al pari di Trasea Peto o Barea Sorano (entrambi condannati a morte da Nerone nell’estate del 65 d.C.) o a citare solamente la congiura successiva a quella del 65 d.C. riferendo che essa sarebbe avvenuta a Benevento.
«Fuisse Vespasiano amicitia cum Thrasea, Sorano, Sentio, quorum accusatores etiam puniri non oporteat, ostentari non debere.» [Tacito, Historiae]
«Duabus coniurationibus provulgatis, quarum prior maiorque Pisoniana Romae, posterior Viniciana Beneventi.» [Svetonio, Nerone]
Non si conosce la data esatta di questa congiura, ma è sicuramente collocabile tra il 65 d.C. – immediatamente successiva alla congiura dei Pisoni – e il 66 d.C.. Gli elementi che rendono deducibile la data ci giungono dagli Acta Fratrium Arvalium, un collegio sacerdotale – con sede ad Ostia – la cui origine risaliva all’età monarchica e che fu ripristinato da Augusto, i cui membri erano senatori scelti dall’imperatore.
«Marco Arruntio Aquila e Marco Vezzio Bolano consoli [consoli da settembre a dicembre del 65 d.C.], avendo fatto il sacrificio per una congiura contro Nerone.»
«Gli stessi consoli il 25 settembre hanno fatto dei voti per il ritorno salvo dell’imperatore Nerone.»
Annio Viniciano. La congiura prende il nome dall’omonima gens romana proveniente da Cales, quasi estinta già sotto il regno di Claudio. Sopravviveva infatti nel regno di Nerone l’ultimo suo esponente, Annio Viniciano, che aveva un figlio che portava il suo stesso nome. Annio Viniciano era stato tribuno dell’esercito di Corbulone, che combattendo contro i Parti era riuscito ad ottenere il protettorato romano sull’Armenia: lo stesso Annio scortò il re armeno Tiridate a Puteoli (dove si svolsero i giochi in onore del re nell’anfiteatro locale) e successivamente a Roma per l’incoronazione. I rapporti tra Senato e imperatore si presentarono già tesi in questa occasione: Nerone aveva infatti tolto – pubblicamente – il saluto a Barea Sorano e a Trasea Peto (renuntiatio amicitiae).
Secondo il piano di Viniciano, la congiura contro Nerone sarebbe dovuta avvenire a Benevento. Perché lì? L’imperatore era diretto in Grecia e, percorrendo la via Appia, si apprestava a sostare nella città sannita per raggiungere Brindisi e lì imbarcarsi. Qualcosa – che non è stato tramandato – in questa occasione andò storto: la congiura fu sventata e si procedette ad una nuova ondata di repressioni volte a stroncare il dissenso politico.
Tutti i congiurati finirono condannati a morte dopo essere stati richiamati con l’inganno a separarsi dalle rispettive armate: lo stesso generale Corbulone (comandante delle legioni in Armenia) fu invitato a raggiungere l’imperatore a Corinto e lì invitato da Nerone a suicidarsi; Annio Viniciano, Marco Licinio Crasso Frugi, Quinto Sulpicio Camerino (ex governatore dell’Africa) furono condannati a Roma da un liberto reggente di Nerone; Rufo Scribonio e Proculo Scribonio (comandanti delle sei legioni di stanza tra Germania Inferiore e Superiore) subirono la stessa sorte di Corbulone.
I delatores. Oltre ai appena citati personaggi finirono nel mirino della repressione neroniana anche alcuni esponenti vicini ai congiurati. Tra questi riportiamo a scopo esemplificativo il caso di Gneo Senzio Saturnino (citato da Tacito). Senzio Saturnino sappiamo essere stato condannato a morte – al termine di un processo penale – con l’accusa di essere un restauratore della Repubblica e amico di Annio Viniciano. Facciamo ora alcune considerazioni: per far sì che si svolgesse un processo era necessario che vi fosse un accusatore, quindi l’accusa si fondava su un qualcuno che presentasse la denuncia. Ed è qui che emerge come il potere imperiale potesse fare uso della legge a proprio vantaggio. Per invogliare qualche accusatore, la legge prevedeva che l’accusa in caso di ‘successo’ dovesse ricevere un quarto del patrimonio del condannato (il resto finiva nelle casse imperiali): alcuni personaggi – come Elvio Marcello, il delatore in questione – così furono spinti (anche dallo stesso imperatore o da chi a lui vicino) ad accusare appositamente coloro che avevano un ingente patrimonio e che erano allo stesso tempo dissidenti nei confronti dell’imperatore. A riprova del sistema dei delatores e della ‘costruzione’ dell’accusa, infine, un ultimo curioso particolare. Il registro contabile di Senzio Saturnino finì nella mani di un tale Piero, che aveva partecipato all’accusa, i cui praenomen e gentilizio ‘Tiberio Claudio’, gli stessi della famiglia imperiale, rendono chiaro che questi non era altro che un liberto dello stesso Nerone.
[X]