Corruzione e affari nell’antica Roma
La progressiva espansione romana trovò il governo romano impreparato a far fronte alle sue entrate con un proprio apparato burocratico e amministrativo provinciale. La delega alle funzioni economiche venne così affidata ai pubblicani, ossia vari gruppi di privati organizzati in società che tramite appalti si aggiudicavano il servizio. Distinguiamo innanzitutto le due tipologie di attività ad essi affidate: le entrate e le spese. Se le prime riguardavano specialmente la riscossione delle imposte (sia diretta che indiretta) e includevano tuttavia anche la gestione dello sfruttamento delle miniere e i canoni d’affitto per l’ager publicus (terre di proprietà dello Stato), le seconde rientravano nella sfera infrastrutturale (manutenzione di strade ed edifici) e militare (forniture). Entrambi erano campi di vitale importanza e le rispettive risorse ad essi destinate si presentavano ad ogni modo appetite dai pubblicani. Da qui le ingerenze che gli stessi assunsero sia nella vita pubblica che nelle decisioni politiche. L’anticipo di ingenti somme versate allo Stato per poi rivalersi sui suoi contribuenti è la più comunemente conosciuta forma di ‘affari’ legata a questa categoria. Iniziamo quindi la nostra analisi partendo da questo esempio, salvo poi ricollegarci al mondo degli appalti. L’esercizio dell’attività ‘bancarie’ era fortemente legata al mondo politico: se spettava ai censori e al Senato fissare l’entità delle somme dei grandi appalti pubblici, appare scontato che gli stessi pubblicani entrassero in contatto con tali funzionari affinché vi fossero condizioni favorevoli ad una società piuttosto che ad un’altra. La competizione tra società pubblicane tuttavia non era l’unica all’epoca esistente: vi era anche quella politica. Frequente quindi era il sostegno reciproco tra questi due sistemi concorrenziali, con la concessione degli appalti strettamente connessa alle esigenze finanziarie dei soggetti politici, la cui campagna elettorale (con eventuale elezione) finiva così finanziata da altri soggetti legati ad interessi comuni. La corruzione si presentava in vari contesti sotto varie forme. A Roma gli appalti erano gestiti dai censori ed erano più facilmente controllabili dal Senato e dall’opinione pubblica, mentre nelle province la collusione era maggiore e – in età repubblicana – gli appalti fuori controllo: da un lato le opere pubbliche locali, dall’altro la riscossione dei tributi, erano sempre gestite da accordi tra governatori e pubblicani. La possibilità di tributi supplementari, che in molti casi andarono oltre i termini di legge, rendeva quindi la stessa carica politica appetita a seconda del territorio ad esso assegnato. Un’altra forma di corruzione da considerare è poi quella della politica estera: organismi-satellite e protettorati ad esempio, durante la fase imperialistica, influirono nella politica romana per via delle relazioni con il Senato, per questioni di confini o successioni dinastiche interne proprio corrompendo alcune delle personalità di spicco della vita politica romana. L’esempio più conosciuto è senz’altro quello di Giugurta: attraverso la corruzione riuscì, per lungo tempo, prima a conquistare l’intera Numidia a danno dei suoi familiari alleati di Roma senza incorrere in alcuna reazione da parte di Roma, poi a protrarre l’intervento militare romano e infine a mettere sotto scacco gli eserciti romani in Africa (prima che Mario utilizzasse il suo stesso metodo contro di lui!).
Il problema della corruzione fu talmente endemico che le tangenti investirono anche funzionari pubblici di ordine inferiore e toccava i campi più disparati. Le tangenti più ingenti erano quelle per gli appalti; altre ancora – minori – erano costituite da ‘diritti di segreteria’ versati ai funzionari statali (in alcuni casi giuridicamente riconosciuti in via consuetudinaria), da visite in carcere ad amici o parenti permesse dai carcerieri, da licenze a soldati ottenute da ufficiali accondiscendenti. Un’altra fonte di ‘corruzione’ era la compravendita delle cariche pubbliche minori e di posti nell’amministrazione provinciale e nell’esercito: quest’ultima, già diffusa in età repubblicana nelle province, prese ad aumentare esponenzialmente in età imperiale, complice anche l’aumento di posti ‘disponibili’ nell’amministrazione e nell’esercito. Le maggiori cariche pubbliche, al contrario di quelle minori, erano invece esenti da questa pratica: se in età repubblicana la corruzione riguardava la compera dei voti (che la sostituiva), anch’essa però non lo fu più – o meglio, per niente – in età imperiale, quando si ritrova addirittura la carica di imperatore in vendita e messa all’asta al miglior offerente (emblematico il caso di Didio Giuliano) o gestita da gruppi militari (pretoriani e legioni) adeguatamente finanziati e sostenuti.
[X]