Battaglia di Benevento (1266)
Manfredi, il re “bastardo” figlio di Federico II, non immaginava che Carlo d’Angiò, alle prese con problemi finanziari e alleati turbolenti, riuscisse a tenere insieme l’esercito raccolto lungo la strada e, soprattutto confidava nella fedeltà dei suoi baroni, nella rete di castelli a difesa del suo regno, nelle frecce degli arcieri saraceni e nella guardia personale con le nuove armature, più leggere e resistenti di quelle dei cavalieri francesi.
Il re di Sicilia, non aveva fatto i conti, però, con il tradimento, gli intrighi, l’inganno dei parenti e la forza dell’esercito franco-angioino.
E di fronte alla carneficina di Benevento e all’infrangersi del sogno di Federico, suo padre, scelse di morire in mezzo alla mischia, senza insegne regali, da semplice e coraggioso cavaliere.
I contendenti
Carlo d’Angiò, non era la pedina che si credeva nelle mani di papa Clemente IV, ma per arrivare al trono di Napoli era pronto a tutto.
Carlo prosegue nella sua politica di dispensare favori e promesse e il suo partito si allarga, tra sostenitori e neutrali. Nel frattempo il vescovo Guido di Mello, presule di Auxerre, conduce l’armata francese in Italia, attraverso il Col di Tenda nel novembre del 1265. I francesi, forti di 20.000 fanti, 6.000 cavalieri e 600 balestrieri montati, trovano la strada spianata lungo la loro discesa fino a Roma, dove il 6 gennaio del 1266, Carlo è incoronato re.Accettò ben volentieri la nomina a senatore e comperò, dal Pontefice, l’onore della “crociata” contro Manfredi, al prezzo di benefici ed esenzioni a favore della Chiesa, oltre alla promessa di non ambire a riunificare la Penisola sotto il suo scettro (piano sia di Federico II sia di Manfredi). Una crociata con il benestare del Papa, il quale assolveva «ladri, briganti, stregoni, incendiari, sacerdoti concubinari, purché partecipino all’impresa dando denari e uomini a Carlo». Il pretendente al trono parte da Marsiglia, tra aprile e maggio del 1265, e giunge a Roma, insediandosi in Laterano (papa Clemente IV risiede a Perugia) e inizia l’opera diplomatica per isolare Manfredi e portare dalla sua parte la nobiltà romana. Manfredi temporeggia. Prova a infastidire l’Angiò con una scorreria ad est di Roma. Il francese, con le poche truppe a sua disposizione marcia fino a Tivoli. Lo scontro non avvenne perché Manfredi preferì ritirarsi.
Il 20 gennaio, infatti, Carlo d’Angiò muove guerra, sapendo di non poter attendere oltre, correndo il rischio di veder sfaldarsi il fronte anti Manfredi, tessuto insieme con il Papa a colpi di intrighi e promesse di conquista. Le insegne francesi, quelle del Pontefice e dei guelfi italiani, marciano insieme lungo la via Latina, tra due ali festanti di folla. L’esercito angioino passa per Anagni, Frosinone e Ceprano, dove varca il confine del regno del sud su un ponte sguarnito di ogni difesa.
L’invasione del sud
Di fronte a questa situazione disastrosa, Manfredi corre ai ripari, seppur tardivi: rinforza la linea difensiva dei castelli lungo il fiume Liri, concentrando le forze tra Rocca d’Arce e San Germano, affidando le difese a Riccardo, conte di Caserta, e Giordano d’Anglano, chiede rinforzi in Germania, assolda mercenari, chiama a raccolta i ghibellini italiani (in pochi risposero, come ricorderà lo stesso Manfredi poco prima della battaglia), riunisce i contingenti di saraceni e promuove la leva feudale (con scarsi risultati e gravi ritardi di esecuzione). Il re di Sicilia, al comando di 5.000 cavalieri e 10.000 saraceni, si dispone lungo la seconda linea di difesa lungo il Volturno, nei pressi di Capua, in attesa del nipote Corrado d’Antiochia, comandante del contingente che operava nelle Marche. Truppe che, tagliate fuori dalla rapida marcia dell’Angiò, non giungeranno mai. Si tratta di misure che Manfredi prende con grave ritardo rispetto alla situazione venutasi a creare.
Carlo prosegue l’avanzata lungo il Volturno, piegando poi verso il Sannio, con l’intenzione di passare per Alife e Telese e cogliere alle spalle Manfredi, sempre di stanza a Capua. Lo svevo, però, avvertito delle mosse del nemico, si dirige alla volta di Benevento, deciso a sbarrare il passo all’avversario. Ormai lo scontro tra i due è ineluttabile, anzi necessario: Manfredi non può più cedere terreno e non si fida più dei suoi baroni; l’Angiò non può più tenere insieme l’esercito senza l’immediata conquista del trono e delle ricchezze del regno.I francesi non incontrano alcun ostacolo anche nell’entrare a Rocca d’Arce. Poco più complessa si rivela la conquista di San Germano, difesa dall’Anglano con 6.000 uomini. Davanti alle mura dell’odierna Cassino, infatti, i francesi si arrestano per alcuni giorni e, mentre i capi riflettono su come assaltare la città, una squadra di cavalieri ghibellini ne esce per abbeverare i cavalli. Ne nasce subito uno scontro e la conseguente ritirata degli uomini dell’Anglano. Un gruppo di cavalieri angioini, però, si getta all’inseguimento e riesce a penetrare a San Germano prima che venga chiusa la postierla dalla quale erano usciti i cavalieri di Manfredi. I pochi angioini riescono a travolgere la debole difesa degli assediati e ad issare sulle mura il giglio di Francia, provocando la resa immediata della città. Nel giro di pochi giorni si arrendono, quasi senza combattere, 32 castelli e rocche. L’intero sistema difensivo del nord del regno è caduto.
Le truppe angioine si presentano davanti a Benevento il 25 febbraio, dopo aver attraversato i passi montani del Sannio coperti di neve. Manfredi si è disposto poco più a nord, dietro il fiume Calore, nei pressi di Santa Maria della Grandella. Ancora una volta il re di Sicilia si trova in una posizione favorevole, ma non ne approfitta. Non attende che sia l’esercito avversario ad attraversare l’unico e stretto ponte sul Calore, ma ordina ai suoi di passare oltre e disporsi dalla battaglia. Le operazioni richiedono diverse ore, l’esercito di Manfredi si sfilaccia e la cavalleria sveva si trova nella svantaggiata posizione di dover caricare il nemico in salita, perdendo così velocità e potenza d’urto.
La battaglia
«Il sovrano schierò d’avanguardia i suoi arcieri saraceni, poi dispose tre linee successive di cavalleria, la prima costituita da 1.200 tedeschi e affidata a Giordano d’Anglano, la seconda da un migliaio di mercenari lombardi e toscani, oltre a qualche centinaio di saraceni, al comando di Galvano Lancia, conte di Salerno, e di Bartolomeo Semplice, e la terza da oltre un migliaio di leve feudali siciliane, sotto il suo diretto comando». Il rivale angioino schierò «una prima linea di fanteria, nella quale i balestrieri avevano la preponderanza numerica, per controbilanciare l’azione degli arcieri saraceni; di seguito, il principe schierò la propria cavalleria, anch’essa su tre linee». La prima linea era affidata ad Ugo di Mirepoix e Filippo di Monfort con 900 cavalieri, la seconda era sotto gli ordine direttamente di Carlo e composta dal fiorentino Guido Guerra con 1.400 lance italiane e francesi; Giles Le Brun e Roberto di Fiandra comandavano la terza linea composta da 700 combattenti fiamminghi, con il compito di aggirare le truppe avversarie.
La battaglia ebbe inizio prima che Manfredi potesse schierare per intero le proprie truppe. Lo scontro si accese dopo un nutrito lancio di frecce da parte delle truppe saracene, le quali non attesero né gli ordini del re né l’arrivo della cavalleria tedesca («non è noto se di propria iniziativa, o per ordine di Manfredi, o in seguito, come sembra probabile, all’errata interpretazione di un ordine ricevuto» riporta l’enciclopedia Treccani nella pagina web sulla battaglia). Dopo un primo momento di smarrimento e dopo gravi perdite, però, la prima linea di cavalieri provenzali si ricompose e caricò i saraceni, i quali senza copertura e l’appoggio dei cavalieri pesanti teutonici, vennero spazzati via.
La violenta contro carica di Giordano d’Anglano parve non solo ristabilire l’equilibrio, ma far pendere la bilancia dalla parte sveva. Le armature tedesche sembravano impenetrabili, tutti i colpi rimbalzavano o scivolavano di lato. Carlo fece intervenire anche la seconda linea angioina, aumentando la pressione sulle forze di Manfredi e facendole indietreggiare. I francesi, inoltre, scoprirono, nel corso del combattimento, che le armature dei tedeschi avevano un punto debole: l’attaccatura della protezione del braccio sotto l’ascella. E lì colpirono le spade angioine. I comandanti angioini, inoltre, diedero un ordine che contrastava con qualsiasi norma cavalleresca: intimarono ad arcieri, balestrieri e fanti di colpire i destrieri dei cavalieri nemici, causando perdite e confusione tra le file sveve.
Il comandante svevo Lancia, infine, aveva appena terminato l’attraversamento del Calore e stava riorganizzando le sue truppe, quando dovette fronteggiare l’assalto della terza linea francese, giunta in battaglia dopo una larga manovra di aggiramento. I pochi ghibellini italiani si diedero alla fuga e anche i cognati di Manfredi e la nobiltà lasciarono il campo di battaglia.
Il sogno di un regno d’Italia unito dalle Alpi alla Sicilia era svanito e ogni possibilità di rivincita era infranta. Manfredi si tolse l’armatura e l’elmo con i simboli dell’aquila argentata, scambiò la sovrarmatura con Tebaldo Annibaldi e si gettò nella mischia, trovandovi la morte.
Solo 600 cavalieri, su 3.600, riuscirono a fuggire, ma «in quella battaglia ebbe gran mortalità d’una parte e d’altra, ma troppo più della gente di Manfredi» scrisse il cronista Villani ricordando l’episodio.
Carlo d’Angiò, supportato da papa Clemente IV, vietò la sepoltura dei caduti fino a quando non fosse stato rinvenuto il corpo del re di Sicilia. E il cadavere di Manfredi venne trovato tre giorni dopo da un popolano in mezzo ai cadaveri di fanti e cavalieri; issatolo sul dorso di un asino andava in giro gridando: «Chi accatta Manfredi?». Il villano venne fustigato da un nobile francese e il corpo di Manfredi portato davanti a Carlo. Fu riconosciuto dai cognati e dal fedele Giordano d’Anglano (giustiziato l’anno successivo in Provenza dopo un tentativo di fuga dalla prigionia), il quale chiese di darne onorata sepoltura. Carlo d’Angiò rispose che non poteva, in quanto Manfredi era scomunicato e non poteva essere sepolto in terra consacrata. Il corpo del re di Sicilia venne tumulato ai piedi del ponte di Benevento e coperto di sassi dai soldati angioini. In seguito Bartolomeo Pignatelli, arcivescovo di Cosenza, lo fece esumare e seppellire lungo il corso del Liri, fuori dai confini del regno del sud. Ipotesi alla quale crede anche Dante Alighieri quando incontra il re di Sicilia nel terzo canto del Purgatorio.
La cronaca dei fatti
La battaglia fu aspra e dura, e durò un gran pezzo che non si sapeva chi avesse il sopravvento. A un tratto, non si sa chi fosse il primo, si levò un grande grido fra le schiere francesi: “Agli stocchi, agli stocchi, a ferire i cavalli!”. E così fu fatto. Per la qual cosa in breve i Tedeschi furono molto malmenati e quasi volti in fuga. Il re Manfredi, vedendo i suoi che non potevano sostenere l’urto, incitò la sua gente a seguirlo in battaglia. Ma la maggior parte dei baroni pugliesi e del regno, o per viltà o perchè vedevano i loro di avere la peggio, e chi disse per tradimento, abbandonarono Manfredi fuggendo chi verso l’Abruzzo e chi verso la città di Benevento. Manfredi, rimasto con pochi, fece come valente signore, perchè volle piuttosto morire in battaglia da re che fuggire con vergogna e mentre si metteva l’elmo, un’aquila d’argento che aveva come cimiero, gli cadde davanti sull’arancione. Ed egli ciò vedendo, sbigottì molto e disse ai baroni che gli eran di lato: “E’ un segno di Dio”. Ma non venne meno al proposito fatto e subito si mise alla battaglia, non con insigne reali, per non essere riconosciuto, ma come un qualsiasi barone. I suoi poco durarono, che già erano in fuga: subito furono sconfitti e ilre Manfredi morto in mezzo ai nemici. Manfredi fu cercato per più di tre giorni, chè non si ritrovava; alla fine furiconosciuto da un ribaldo di sua gente, che trovato il corpo, lo mise sopra un asino e venne gridando: “Chi compera Manfredi, chi compera Manfredi!”. Questo ribaldo fu bastonato da un barone del re, furon fatti venire tutti i baroni prigionieri, e, domandato a ciascuno se quello era Manfredi, tutti timorosamente dissero di sì. Pregato che gli si facesse dare onorata sepoltura, rispose il re: “Lo farei volentieri se non fosse scomunicato”. E poichè era scomunicato, re Carlo non volle che fosse recato in luogo sacro.
Giovanni Villani, Nuova Cronica
Ordinate le schiere d’amenduni parti nel piano della Grandetta, il vescovo d’Alsurto, sì come legato del papa, assolvette tutti quelli dell’oste del re Carlo, perdonando colpa e pena, però che combatteano in servigio di Santa Chiesa. E ciò fatto, incominciò l’aspre battaglia da Tedeschi e Franceschi; e non vedendo bene i Franceschi, lo re Carlo si mise al soccorso di loro con sua schiera. Como gli usciti e’ loro compagni guelfi vidono re Carlo fedire si misono appresso, e seguendo sempre la persona del re Carlo. Manfredi veggendo i suoi che non poteano durare a battaglia, confortò la gente di sua schiera che lo seguisse; da quali fue male inteso, però che parte di baroni pugliesi e del regno, cioè il conte Camirlingo e quelli dell’Acerra e più altri, o per viltà, e chi disse per tradimento, si fallirono a Manfredi e abbandoranlo; e fuggirono chi in verso Abruzzi, e chi in verso a Benivento. Manfredi rimase con pochi, pure nondimeno fece come valente signore, che innanzi volle in battaglia morire che fuggire con vergogna. E mettendosi l’elmo, dove era un’aquila di sopra d’arientoper Cimieri, gli cadde in sullo arcione dinanzi; ed egli veggendo ciò, sbigottì molto e disse ai suoi baroni in latino, che gli erano dallato: “hoc est signo dei, però che questo cimiero appiccai io con le mie mani in tal modo, che nonpotea cadere”. Maperò non lasciò, e prese cuore e misesi alla battaglia non con sopra insegna reale, per non essere conosciuto, ma come un altro barone. Ma poco durò che già i suoi erano in volta e furono sconfitti; e il re Manfredi morto ammezzo de’ nemici; ed era già notte; e presono la città di Benivento. E molti baroni di Manfredi furono presi (…) i quali il re Carlo mandò in prigione in Provenza, e là in prigione morirono; e molti altri tedeschi e pugliesi ritenne in prigione in diversi luoghi del Regno. E pochi dì appresso, la moglie del detto Manfredi e’ figlioli e la sirocchia , i quali erano in Nocera d’i Saracini in Puglia, furono renduti presi al detto re Carlo, i quali morirono in sua prigione. E ‘I detto Manfredi si cercò più di tre die che non si trovava e non si sapeva se fosse morto o preso scampato, perche non aveva auto alla battaglia indosso vestimenta reale; e poi per uno rubaldo di sua gente fue conosciuto per più segni di sua persona, in mezzo del campo e puosonlo a traverso in su in uno asino, venendo gridando: “chi accatta Manfredi?”; il quale rubaldo da uno barone del re d’uno bastone fue battuto. E recato il corpo di Manfredi a re Carlo, ed egli fece venire tutti i Baroni eh’ erano presi e domandò a ciascuno s’egli era Manfredi: tutti timorosamente dissono di si. Il conte Giordano si diede delle mani nel volto, piangendo e gridando:”‘oimè, signor mio”, onde molto ne fue commendato da Franceschi; e da alquanti Bretoni il detto re fue pregato gli facesse onore alla sepoltura.
Saba Malaspina, Rerum Sicularum Historia
Le statistiche della battaglia
Data | 26 febbraio 1266 | ||
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Luogo | vicino a Benevento, Italia | ||
Esito | vittoria dei Guelfi | ||
Schieramenti | |||
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