Aspetti tecnici nella costruzione delle strade romane
Secondo articolo dedicato al sistema viario romano, con uno sguardo questa volta dedicato in particolare alle tecniche di costruzione che i romani utilizzavano a seconda del territorio in cui si trovavano. [Primo articolo]
Per quanto riguarda gli aspetti sulle tecniche di costruzione delle strade da parte dei Romani, purtroppo non ci sono pervenute notizie. Tuttavia, una preziosa eccezione è costituita da un brano del poeta napoletano Publio Papinio Stazio (Silvae, IV, 3), volto a esaltare l’imperatore in occasione dell’apertura della via Domitiana, realizzata nel 95 d.C. tra Mondragone e Pozzuoli. A questo passo si possono aggiungere pochi altri riferimenti letterari, quale la descrizione ammirata del selciato di epoca traianea della via Appia lasciataci nel VI secolo d.C. da Procopio (Bellum Gothicum, I, 14). Di conseguenza, le conoscenze relative all’ingegneria stradale romana derivano soprattutto dallo studio delle opere viarie stesse, giunge fortunatamente numerose.
Da tale esame emerge la straordinaria capacità dei Romani di rapportarsi al territorio, adottando – a seconda delle situazioni – le scelte di percorso e di tecnica costruttiva più opportune, lontane da regole rigide e poco ‘invasive’ nei confronti dell’ambiente attraversato, dal quale si cercava sempre di trarre vantaggio senza contrastarlo.
Per quanto riguarda le strategie di percorso, tali criteri sono stati ben sintetizzati dagli studiosi: tracciati rettilinei, che puntavano il più rapidamente possibile al ‘capolinea’, demandando a una viabilità secondaria i collegamenti con la maggior parte dei centri urbani; percorsi rilevati e permanenza in quota, evitando bassure e fondivalle e preferendo un tracciato su terrapieno artificiale in caso di pianura, di crinale in caso di basse colline, a mezza o a piede di costa in caso di montagne, per assicurare visibilità e protezione da malintenzionati e dagli agenti naturali. Vennero realizzati rettilinei lunghi fino a centinaia di chilometri, quali ancora oggi possiamo ammirare e addirittura percorrere lungo la via Appia, che tra Roma e Terracina disegna un percorso di 90 km.
Passando alla tecnica di costruzione, nelle strade romane, si riconoscono alcuni elementi fondamentali, che in parte si ritrovano nella descrizione di Stazio:
- un riporto di base, costituito da una massicciata o anche da un terrapieno di argilla, se il terreno non era solido;
- uno strato di preparazione, costituito da ciottoli, ghiaia e pietrisco, legati con calce o con argilla;
- un rivestimento superiore (summum dorsum, summa crusta, pavimentum)
Tale stratificazione, il cui spessore poteva variare da alcuni decimetri ad alcuni metri, veniva per lo più messa in opera entra una trincea (fossa), preliminarmente scavata fino a raggiungere un terreno abbastanza solido; in caso di contesti particolarmente umidi, si ricorreva anche a sistemi di consolidamento del suolo mediante pali (documentati lungo la via Ostiense) o di drenaggio mediante anfore (lungo la via Emilia).
Vari potevano essere i tipi di rivestimenti superiori, dai quali derivava la definizione delle strade stesse, come ci documenta un importante passo di Livio (XLI, 27, 5). La pavimentazione più conosciuta, anche perché giunta fino a noi intatta, era quella dei basoli poligonali di pietra (silicea o calcarea, a seconda del materiale disponibile) a forma di cuneo. Le strade basolate erano note come viae silice stratae o lapidibus stratae o semplicemente stratae (=pavimentazione) ed erano comuni nei centri abitati. Più diffuse erano le semplici ed economiche viae glarea stratae o viae glareatae (=inghiaiate), caratterizzate da un rivestimento in battuto di pietrisco e ghiaia. L’archeologia e le fonti attestano infine anche le viae terrenae, la cui carreggiata era costituita dal terreno battuto. In presenza di un suolo compatto – ad esempio quello flegreo –, le strade potevano essere ricavate direttamente nel banco roccioso, opportunatamente spianato e talora intaccato con solcature longitudinali o trasversali. In tutti i casi, era consuetudine conformare ad arco la carreggiata, per evitare il ristagno dell’acqua piovana e favorirne il deflusso verso i fossati, frequentemente scavati ai lati della strada, a scopo prevalentemente idraulico.
Due cordoni di pietre sporgenti infisse di taglio segnavano i limiti tra la carreggiata e due marciapiedi laterali (margines o crepidines, da crepidae= sandali); tali marciapiedi divenivano, in caso di strade molto frequentate, ampie piste destinate ai pedoni e ai cavalli.
Quanto alla larghezza delle strade, in linea generale essa mirò sempre a garantire la doppia circolazione di marcia ai carri: da 2.36m (8 piedi) per i rettifili e i 4.72m (16 piedi) nelle curve previsti nelle leggi delle XII Tavole (V sec. a.C.), il valore medio delle grandi strade consolari si attestò sui 4.10m (14 piedi), raggiungendo tuttavia misure anche superiori (20m), che certo comprendevano pure le crepidines.