In questo articolo vogliamo ricordare l’imperatore dei Romei Giovanni VIII Paleologo, il quale nacque il 18 dicembre 1392 a Costantinopoli e vi morì il 31 ottobre 1448. Questo articolo-ricordo in sua memoria comprenderà l’intero testo presente nel libro “Figure Bizantine” di Charles Diehl che potete trovare in pdf sul sito della prof.ssa Silvia Ronchey: http://www.silviaronchey.it/materiali/pdf_docenza/pubblicazioni/Diehl_Figure_bizantine.pdf
A Firenze, nella cappella di palazzo Riccardi che nel 1457 Benozzo Gozzoli decorò per Piero de’ Medici, una serie di bellissimi affreschi rappresenta il corteo dei Re Magi che procede nella campagna fiorentina. Per la freschezza dei suoi colori, per la grazia della composizione, per l’immagine così vivace che fornisce della vita nobiliare del xv secolo, quest’opera è una delle più affascinanti che ci abbia dato il primo Rinascimento. Ha anche un’ulteriore attrattiva: la maggior parte delle figure collocate dal maestro nei suoi dipinti sono ritratti, sia dei membri della famiglia dei Medici, sia degli ospiti illustri che, in occasione del concilio del 1439, Firenze aveva ricevuto con curiosità rispettosa. In uno degli affreschi figura Giuseppe, patriarca di Costantinopoli, seduto sulla sua mula, circondato dai suoi monaci; nell’altro c’è l’imperatore greco Giovanni VIII Paleologo, a cavallo di un destriero bianco magnificamente bardato, straordinariamente elegante nella lunga veste verde dagli ampi ricami d’oro, sotto un cappello dalle falde rialzate sormontato dalla corona d’oro. Attraverso altre opere d’arte, come la medaglia di Pisanello, i bassorilievi che Filarete scolpì sulle porte di San Pietro, e infine attraverso un bel busto bronzeo, segnalato recentemente, dove lo stesso Filarete ha reso con straordinaria intensità vitale i lineamenti vagamente esotici del basileus bizantino, ci si rende conto dell’impressione profonda suscitata in Italia dalla visita di Giovanni Paleologo e del ricordo memorabile lasciato dal ricco e pittoresco corteo che lo accompagnava. Ma non si fermano qui le relazioni del sovrano greco con l’Occidente. Ce ne furono altre, che illustrano nel modo più significativo i rapporti esistenti fra Greci e Latini al tempo degli ultimi Paleologhi, alla vigilia della catastrofe finale in cui sarebbe precipitato l’impero bizantino. i. Giovanni VIII era il figlio maggiore di quell’imperatore Manuele II che fu sicuramente uno dei migliori e dei più ragguardevoli fra gli ultimi sovrani che regnarono a Bisanzio. Nel 1415 suo padre gli aveva fatto sposare una figlia del granduca di Moscovia, una bambina di undici anni che al suo arrivo a Costantinopoli prese il nome di Anna. Ma nel 1418 la giovane principessa fu stroncata da un’epidemia di peste che spopolò la capitale e in cui morì anche il figlio del sultano Bayazid, del quale il cronista Ducas ha narrato la strana storia. Inviato a Bisanzio come ostaggio, era stato allevato insieme al principe imperiale Giovanni, e si era talmente entusiasmato per le lettere e per la civiltà ellenica che voleva a tutti i costi farsi ortodosso. L’imperatore Manuele, per timore di complicazioni, resistette alle istanze del giovane; ma quando, gravemente malato e sentendosi prossimo alla fine il musulmano insisté ancora per ricevere il battesimo, avvertendo il basileus che col suo rifiuto sarebbe stato responsabile della sua dannazione eterna, il principe non osò opporsi ancora al desiderio dell’infedele. Volle essere lui stesso il suo padrino e quando l’indomani il neofita spirò, lo fece seppellire con tutti gli onori nella chiesa di San Giovanni di Studio. La morte di Anna di Russia imponeva l’obbligo di trovare una nuova sposa per l’erede al trono. La corte bizantina gettò gli occhi su Sofia di Monferrato, discendente di quel Teodoro Paleologo, figlio di Andronico II, che all’inizio del xiv secolo aveva ereditato questo principato italiano. Ella arrivò a Costantinopoli nel novembre 1420 e il 19 gennaio 1421 le nozze furono celebrate in gran pompa a Santa Sofia. Le feste per l’incoronazione che seguirono furono altrettanto magnifiche: «Fu davvero – dice Franze – la festa delle feste e la panegira delle panegire». Il matrimonio contratto sotto così brillanti auspici non era destinato a essere felice. La nuova imperatrice aveva tutte le migliori qualità d’animo; sfortunatamente era brutta in modo intollerabile. Non che fosse totalmente priva di grazie: era ben fatta, aveva belle braccia, spalle bellissime, collo elegante e morbido, capelli fulvi e ricci che l’aureolavano d’oro e che, sciolti, le ricadevano fino ai piedi; aveva mani fini, meravigliosamente proporzionate, una graziosa figura: ma era un po’ troppo alta e il suo viso soprattutto, fronte, naso, bocca, occhi, sopracciglia, era di una bruttezza che respingeva. Tanto che, come dice Ducas, ella era il perfetto esempio del detto popolare: «Davanti è una Quaresima e di dietro una Pasqua». Giovanni non volle mai sentir parlare di questa spiacevole compagna che gli era stata congiunta da un matrimonio unicamente politico. La prese immediatamente in odio profondo e non glielo nascose. Decise subito di fare stanze separate: relegò Sofia in una parte lontana del palazzo dove visse isolata, in mezzo alla sua piccola corte italiana che l’aveva accompagnata in Oriente; e se non fosse stato per il rispetto che professava al padre, l’imperatore Manuele, il giovane principe non avrebbe esitato a rimandare la moglie in Italia. Del resto, si consolava ampiamente con delle altre: «Il basileus Giovanni – dice Franze – non aveva né amore né gentilezza per l’imperatrice Sofia e nel matrimonio regnava la discordia. L’imperatore amava altre, poiché la natura aveva rifiutato ogni bellezza alla sovrana». Le cose peggiorarono quando nel 1425 morì l’imperatore Manuele. Da allora la vita della giovane donna si fece intollerabile, tanto che ella si risolse a prendere una grave decisione. «La basilissa, – narra Ducas, – vedendo che l’imperatore persisteva nei suoi sentimenti verso di lei, decise di fuggire da Costantinopoli. Essendosi messa in contatto con i Genovesi di Galata, e avendo rivelato loro di voler partire, un giorno uscì dalla città con il pretesto di distrarsi e si recò in uno dei magnifici giardini dei dintorni con quelle delle sue ancelle che parlavano la sua lingua e qualche giovane scudiero che aveva portato dal suo paese. Verso sera, i Genovesi di Galata che avevano preparato una nave, presero rispettosamente a bordo la principessa e la deposero sull’altra riva; e tutta la popolazione di Galata le andò incontro e la salutò con reverenza come sua signora e sovrana. Dato che stava calando il buio nessuno in città ebbe dei sospetti: fu solo al mattino che la gente del palazzo apprese con dispiacere la notizia». In altri tempi i negozianti di Galata avrebbero pagato caro il loro intervento insolente: in un primo momento il popolo della capitale, furioso, non parlava d’altro che di lanciarglisi contro e distruggere i loro magazzini. Ma l’imperatore Giovanni era troppo lieto di essersi sbarazzato in questo modo della moglie. Calmò la collera popolare e lasciò che Sofia si imbarcasse senza ostacoli su un battello genovese diretto in Italia. Del suo soggiorno in Oriente ella non riportava altro che la fascia imperiale, lo «stemma» che ornava la testa delle basilisse. «Mi basta questo – diceva con malinconica ironia – per dimostrare che sono stata e sono imperatrice dei Romani. Quanto alle ricchezze che ho lasciato laggiù, non hanno alcuna importanza per me». Tornata nel suo paese natale, entrò in un monastero e lì, tutta dedita a Dio, terminò la sua triste esistenza. Libero da Sofia, Giovanni VIII si mise presto alla ricerca di una terza moglie. La trovò nella famiglia dei Comneni di Trebisonda. Come si sa, esisteva dall’inizio del xiii secolo, all’estremità del mar Nero, un impero greco che, malgrado fosse cominciata la sua decadenza, nel xv secolo conservava ancora una sua prosperità e una sua gloria. C’era senz’altro un evidente interesse politico a riavvicinare questi due Stati, frammenti dell’ellenismo, così a lungo divisi fra loro da aspre gelosie. Bisogna dire che la bellezza delle principesse imperiali di Trebisonda era celebre in tutto l’Oriente, una considerazione non trascurabile per Giovanni VIII dopo la sua disgraziata esperienza italiana. Bessarione fu dunque incaricato di negoziare un matrimonio fra il Paleologo e una figlia dei Comneni. Ci riuscì. Nell’agosto 1427 Maria, figlia dell’imperatore Alessio IV, sbarcò a Costantinopoli; in settembre si celebrarono le nozze e la giovane donna fu incoronata imperatrice dal patriarca Giuseppe. Almeno questa volta Giovanni VIII non aveva di che lamentarsi. La novella sposa era, dice Ducas «altrettanto raccomandabile per la sua bellezza che per le sue virtù». Lo attesta ampiamente anche il viaggiatore francese Bertrandon de la Broquière che nel 1432 visitò la capitale bizantina e che nella sua relazione ci ha tracciato un grazioso ritratto della bella sovrana. L’aveva scorta una mattina a Santa Sofia e non trovò pace fino a che non l’ebbe rivista più da vicino, «dal momento che mi era sembrata così bella in chiesa». Da bravo curioso attese pazientemente «tutto il giorno, senza mangiare né bere fino al vespro», che ella rimontasse a cavallo per tornare al palazzo delle Blacherne. La sua costanza fu ricompensata. «Non aveva con sé altro che due dame, due o tre anziani notabili e tre di quelli a cui i Turchi fanno sorvegliare le mogli. E quando uscì dalla chiesa le portarono una panchetta su cui salì, e poi le condussero un gran bel cavallo con una sella bella e preziosa. Avvicinatosi alla panchetta uno dei notabili prese il lungo mantello di lei, girò intorno al cavallo e stese il mantello sulle sue mani, più abilmente che poté. Ella mise il piede nella staffa e montò tale e quale a un uomo, poi si rigettò il mantello sulle spalle e si mise in testa uno di quei cappelli lunghi a punta, alla greca, sulla cui punta c’erano tre piume d’oro che le si addicevano molto. Mi sembrò altrettanto bella di prima, forse anche più bella. Mi avvicinai tanto che mi si ordinò di tirarmi indietro, e mi sembrò che non ci fosse nulla da ridire in lei, tranne che aveva il viso tinto, cosa non necessaria dato che era giovane e di colorito chiaro. A ciascuna delle orecchie portava un pendente d’oro largo e piatto con tante pietre preziose, rubini soprattutto. E quando lei montò a cavallo, altrettanto fecero le due dame che l’accompagnavano, belle anche loro, con mantelli e cappelli, e se ne andarono poi a quel palazzo dell’imperatore che chiamano Blacherne». L’imperatore Giovanni VIII restò, finché ella visse, appassionatamente innamorato di quella incantevole Maria Comnena, accanto alla quale gli fu facile dimenticare la brutta e spiacevole sposa che la politica gli aveva per un momento inflitto. Con questo, la storia sentimentale del basileus esprime perfettamente, in maniera simbolica, i sentimenti provati dall’intero Oriente greco nei confronti dell’Occidente. Le necessità della situazione politica trascinavano Bisanzio dalla parte dei Latini; ma l’unione non poteva durare, incombeva sempre la minaccia di divorzio. L’interesse ravvicinava per un po’ i due mondi: mancava però il cuore. Tuttavia, mentre il pericolo turco aumentava di giorno in giorno, l’impero bizantino, stremato, non vedeva altra risorsa se non nell’aiuto dell’Occidente. Già a suo tempo Manuele II, padre di Giovanni VIII, aveva orientato la sua politica in quella direzione e alla fine del 1399 non aveva esitato a lasciare la capitale per andare a sollecitare personalmente il sostegno dei sovrani europei. Da Venezia, dove sbarcò e fu trattato splendidamente, arrivò in Francia, dove Carlo VI lo ricevette con magnificenza straordinaria. Il 3 giugno 1400, l’imperatore passava il ponte di Charenton. Duemila borghesi di Parigi, a cavallo, l’attendevano per fargli da scorta; più avanti, il cancelliere, i presidenti del Parlamento con cinquecento persone al seguito e tre cardinali lo complimentarono a nome del re: lo stesso Carlo VI, infine, con tutta la sua corte, al suono di trombe e altri strumenti musicali venne incontro al principe greco e gli dette il bacio di benvenuto. L’imperatore, a cavallo, vestito di un ricco abito di seta bianca, fece ottima impressione a tutti: con la nobiltà dei suoi lineamenti, la gran barba, i capelli bianchi, e la dignità della sua persona, conquistò l’universale simpatia. Entrò solennemente a Parigi tra gli applausi della folla che si ammassava al suo passaggio. Dopo un pasto sontuoso a palazzo lo condussero al Louvre dove fu ospitato in piena regola. Il re lo colmò di doni, gli promise calorosamente tutto l’aiuto che chiedeva, tanto che egli poté scrivere a uno dei suoi familiari: «Molte sono le cose che mi ha accordato il glorioso re; molte sono quelle che abbiamo ottenuto dai suoi parenti, dai dignitari di corte, insomma, da tutti». Il basileus si recò poi in Inghilterra, dove trovò un’accoglienza analoga. Ma da tutte quelle belle promesse alla fine non ricavò nulla. Nonostante un soggiorno di due anni in Occidente, Manuele non ottenne dopo tutto che sterili segni d’interesse. La politica matrimoniale che tentò in seguito non ebbe risultati migliori. L’Europa aveva altro a cui pensare che non alla salvezza dell’impero greco. Malgrado tali insuccessi e delusioni, Giovanni VIII proseguì nella tradizione paterna. Fece anche un passo in più. Trascurando i saggi consigli di Manuele II che, pur raccomandandogli con insistenza l’unione politica con gli occidentali, l’aveva messo però bene in guardia contro i pericoli di un riavvicinamento religioso, Giovanni VIII dimenticò le vecchie e incurabili antipatie che i Greci nutrivano per la Chiesa romana e ritenne che per conciliarsi le buone grazie del papa e assicurarsi attraverso di lui il sostegno dell’Europa, niente sarebbe stato più efficace che mettere fine allo scisma e ristabilire l’unione delle due Chiese, perseguita tante volte invano. Su invito di Eugenio IV, che prometteva di prendere a suo carico tutte le spese del viaggio imperiale, nel novembre 1437 il basileus si imbarcò per l’Italia con un seguito numeroso. Portava con sé suo fratello, il despota Demetrio, il patriarca di Costantinopoli, Giuseppe, e un pomposo corteo di prelati, monaci e grandi dignitari. L’8 febbraio 1438 arrivò a Venezia. Vi trovò un’accoglienza magnifica, di cui Franze ci ha narrato gli splendori, secondo il racconto che gliene fece lo stesso fratello dell’imperatore. Quando la trireme imperiale attraccò al molo di San Nicola, gli andò incontro una tale quantità di imbarcazioni che – dice lo storico – non si arrivava più a vedere il mare. Il doge e il gran Consiglio salirono a bordo per salutare l’imperatore e prendere con lui le disposizioni necessarie per il ricevimento solenne dell’indomani. Quel giorno, domenica 9 febbraio, il doge si imbarcò sul Bucintoro con un seguito sontuoso; la galera ufficiale, dice Franze, «tutta tappezzata di stoffe di porpora, a poppa esibiva leoni d’oro, drappi d’oro; inoltre, era tutta decorata da pitture che rappresentavano storie bellissime». Seguivano il Bucintoro dodici quadriremi dipinte e decorate come la barca del doge: portavano i patrizi veneti e, tutte imbandierate di stendardi dorati, echeggiavano dei suoni delle trombe e del fragore degli strumenti musicali. Infine veniva un vascello magnifico destinato al basileus. I rematori, vestiti di ricchi abiti ricamati a foglie d’oro, portavano sul berretto l’immagine di san Marco associata allo stemma dei Paleologhi. Lungo le murate sventolavano stendardi dai colori imperiali; sul cassero tutto pavesato di bandiere dorate stavano quattro personaggi vestiti di drappi d’oro, con in testa parrucche rosse incipriate d’oro; facevano da scorta a un bell’uomo, tutto scintillante d’oro, con uno scettro in mano, al quale dei signori in vesti esotiche rendevano rispettoso omaggio. Davanti al cassero, su una specie di colonna, si ergeva un personaggio armato da cima a fondo e scintillante come il sole, con ai suoi piedi due bambini in costume da angeli. E ancora, a poppa, c’erano due leoni d’oro e fra di essi un’aquila a due teste. Al suono delle trombe e al clamore delle acclamazioni tutta questa flottiglia si diresse verso il vascello imperiale. Di nuovo il doge salì a bordo per salutare il basileus. Giovanni VIII lo ricevette seduto, poi lo invitò a prendere posto su un seggio collocato un po’ più in basso del trono imperiale. E dopo che i due capi di Stato si furono amichevolmente intrattenuti, fecero insieme il loro ingresso in «quella brillante e grande Venezia, – come dice Franze, – città davvero adorabile, la più straordinaria per ricchezza, varietà, splendore, città variegata e multicolore, degna di elogi infiniti, e infine città fra tutte saggia, che meriterebbe giustamente di chiamarsi una seconda terra promessa». Tutto suscita l’entusiasmo del cronista, «la meravigliosa chiesa di San Marco, il magnifico palazzo del doge, le dimore degli alti signori, così vaste, così adorne di porpora e d’oro, belle tra le più belle». «Quelli che non hanno mai visto queste meraviglie – aggiunge – non ci potranno credere; quelli che le hanno viste sono incapaci di descrivere la bellezza della città, l’eleganza degli uomini, il contegno delle donne, la partecipazione piena d’allegria che ha salutato l’ingresso dell’imperatore». Attraverso il Canal Grande, il corteo raggiunse il ponte di Rialto decorato con stendardi dorati, e al suono delle trombe, tra le acclamazioni, Giovanni VIII fu condotto al tramonto al palazzo del marchese di Ferrara dove erano stati allestiti i suoi appartamenti. Non è il caso di raccontare qui i lunghi dibattiti del concilio in cui, prima a Ferrara e poi a Firenze, si tentò di ristabilire l’unione delle due Chiese. Basterà ricordare che per far cedere l’intransigenza del clero bizantino, l’imperatore dovette usare tutta la sua energia, appoggiandosi su ogni sorta di argomenti per piegare le coscienze con la forza della sua autorità. Ci si arrivò, finalmente, il 6 luglio 1439. Durante una cerimonia solenne in Santa Maria del Fiore, il papa stesso officiò e invocò le benedizioni celesti sull’opera di pace che era stata compiuta; poi tutti i membri del concilio sfilarono davanti al sovrano pontefice, si comunicarono insieme e si scambiarono il bacio della pace. L’unione sembrava ristabilita e Giovanni VIII s’imbarcò pieno di fiducia sulle galere veneziane che lo dovevano riportare in Oriente. Ma le sue illusioni durarono poco. «Quando i prelati – racconta Ducas – giunsero a Costantinopoli, i cittadini che, secondo l’usanza, erano venuti a salutarli, chiesero: “Come sta la faccenda? Com’è andato il sinodo? Abbiamo vinto?” E quelli rispondevano: “Abbiamo venduto la nostra fede, abbiamo scambiato la pietà con l’empietà, abbiamo tradito la vera comunione con il pane azzimo”. Questo e altro dicevano, più vergognoso ancora, quegli stessi che avevano firmato il decreto del concilio. E quando gli si domandava: “Ma perché avete firmato?” “Per paura dei Franchi” dicevano. E quando allora gli si chiedeva se i Franchi li avessero torturati, frustati o gettati in prigione, rispondevano “No”. “Ma allora perché?” si domandava. “Mi venga mozzata questa mano che ha firmato, mi si strappi la lingua che ha aderito” e non trovavano altro da aggiungere. Certi prelati al momento di firmare avevano detto: “Se non ci darete una somma sufficiente di denaro non firmeremo”. Innumerevoli furono le somme spese a questo proposito, rimesse nelle mani di ciascuno dei padri; in seguito questi si pentirono, ma non resero il denaro, più colpevoli di Giuda che lui, almeno, i trenta denari li aveva resi». Un’altra triste notizia accolse l’imperatore al suo ritorno. Quando sbarcò nella sua capitale, il 1° febbraio 1440, apprese della morte della principessa Maria. Fu per lui – dice Ducas – un grandissimo dolore che venendosi ad aggiungere alle sue preoccupazioni per la faccenda religiosa, minò gravemente la sua salute affrettandone la fine. Ancora oggi, nell’arcipelago dei Principi, rimane un ricordo della bella imperatrice Comnena. Giovanni Paleologo aveva fatto costruire nell’isola di Halki un gran monastero e una bella chiesa in onore del suo santo patrono Giovanni il Precursore. La basilissa Maria si era associata a questa pia fondazione elevando accanto all’edificio principale una piccola cappella della Vergine. Solo questa cappella sfuggì all’incendio che divorò il monastero nel xvii secolo; esiste ancora oggi, quasi intatta, ed evoca il ricordo dell’affascinante principessa e del basileus che l’amò. Nonostante il dissenso profondo, nonostante l’antipatia secolare che separavano Greci e Latini, gli uomini del xv secolo fecero, come si vede, seri sforzi per riconciliare Oriente e Occidente e assicurare con la loro concordia la salvezza del traballante impero di Bisanzio. Così gli eventi avevano trapiantato nell’Oriente greco una quantità di famiglie e di dinastie latine. Dei Fiorentini, gli Acciaiuoli, regnavano sul ducato franco di Atene; dei Genovesi, i Gattilusi, erano principi di Lesbo e un’importante compagnia commerciale genovese possedeva l’isola di Chio; altri Italiani, gli Zaccaria, erano signori di Morea; altri ancora, i Tocco, si erano stabiliti a Cefalonia e a Zante. Venezia era ovunque, e le sue famiglie patrizie avevano fondato venti dinastie nelle isole dell’Arcipelago. Il pericolo comune della conquista musulmana avvicinava tutti questi principati, rendendoli consci della necessità di unirsi con Bisanzio. Ecco il perché dei matrimoni che durante l’ultimo secolo dell’impero greco unirono così spesso, con un fine politico, le figlie dei principi latini d’Oriente e i membri della famiglia dei Paleologhi. Ne dette l’esempio il fratello di Manuele II, Teodoro I, despota di Morea. Nel 1388 sposò Bartolomea Acciaiuoli, figlia di Nerio II, duca di Atene, che un cronista definisce come «la più bella donna del suo tempo». I figli di Manuele II, imitando lo zio, sposarono anche loro delle principesse latine. Come si è visto, Giovanni VIII prese in sposa Sofia di Monferrato, Tommaso si unì a Caterina Zaccaria; Costantino, che sarà l’ultimo imperatore di Bisanzio, sposò Teodora Tocco, poi Caterina Gattilusio; infine Teodoro, despota di Morea, ottenne la mano di una principessa latina, come aveva fatto il fratello maggiore Giovanni. Nel 1421, contemporaneamente al fratello, celebrò le sue nozze con Cleopa Malatesta. Di tutti questi matrimoni che ebbero il buon esito di far tornare l’intera Morea sotto l’autorità dei Paleologhi e di fare dei despoti di Mistra gli eminenti rappresentanti dell’ellenismo alla vigilia della catastrofe finale, uno solo ci è noto con qualche particolare. Grazie alle orazioni funebri pronunciate in suo onore da Gemisto Pletone e da Bessarione, la figura di Cleopa Malatesta, principessa di Morea, ha conservato un certo rilievo, e la sua storia ci mostra una volta di più il risultato che davano le unioni tra Greci e Latini. La giovane italiana univa a una straordinaria bellezza nobili qualità morali. «Bella e buona, – dice uno dei suoi panegiristi, – sposò il nostro principe altrettanto bello e buono». E altrove si legge: «Il suo corpo rispecchiava l’immagine della sua anima bella»; e ancora, «era, fra tutte le donne, come una statua meravigliosa». Molto intelligente, cercò di adattarsi alle usanze dei suoi nuovi sudditi. Si convertì all’ortodossia e adempì devotamente alle pratiche del rito greco. Mutò il suo modo di vivere, le abitudini italiane «molli e rilassate» – dice il suo panegirista – «per apprendere la severità e la modestia dei nostri costumi, tanto che non era da meno di nessuna delle nostre donne». Fece il possibile per dimostrare ai Greci una benevolenza estrema, sempre dolce e caritatevole con tutti. Tutto ciò la rese molto popolare; e quando nel 1433 morì dopo una breve malattia, fu lutto universale in Morea. «Alle sue esequie – dice l’orazione funebre – il suo corpo è stato portato a braccia dalla folla, fra pianti e gemiti e dolore profondo del nostro divino despota, fra le lacrime dei magistrati e di tutti i suoi domestici. Poiché ella si era dedicata a tutti, e non ci sono lacrime sufficienti per piangere questo colpo terribile del destino». Eppure, nonostante tanta bellezza e tante virtù, il matrimonio di Cleopa Malatesta e Teodoro Paleologo non fu per niente felice. Il despota prese presto a odiare la moglie e la discordia arrivò al punto che egli pensò di abdicare e ritirarsi in un monastero, pur di separarsi da quella sposa aborrita. Lo si fece ragionare e cambiare parere, ci si adoperò per un riavvicinamento a cui i due congiunti si adeguarono. Ma sussisteva sempre fra loro la contrapposizione fondamentale, come nella maggior parte delle unioni dello stesso genere che abbiamo raccontato. Se talvolta questi matrimoni ebbero un esito felice, se anche i Latini da parte loro si lasciarono sedurre senza rimpiangerlo dal fascino delle belle greche, questi esempi furono rari. Nonostante gli sforzi ostinati per avvicinarsi all’Occidente, gli ultimi Paleologhi sentivano inconsciamente che le loro simpatie li portavano altrove. Lo dimostrerà, dopo il matrimonio di Giovanni VIII, il progetto di un’unione abbozzata da Costantino Dragases, ultimo imperatore bizantino, proprio alla vigilia della presa di Costantinopoli.