Il diritto di accesso della Gallia Comata al Senato romano nel discorso di Claudio (48 d.C.)
La “Tavola di Lione” (o Tabula Claudiana) fu scoperta nell’omonima località nel 1528; si tratta di una tavola in bronzo contenente parte del discorso dell’imperatore Claudio pronunciato nel 48 d.C. e riguardante l’allargamento dei diritti dei Galli Comati, che oltre alla sua importanza storica ha permesso anche di poter fare un confronto tra la versione originale – inclusa nel CIL XIII, 1668 – e quella fornita dallo storico Tacito negli Annales (XI, 24). Analizziamo dunque nel seguente articolo la tematica dell’allargamento dei diritti dei Galli nel mondo romano partendo proprio da queste due importanti fonti storiche.
La versione della Tavola di Lione / Tabula Claudiana
L’imperatore Claudio è molto favorevole alla concessione per i Galli del diritto di accesso al Senato romano e, nel suo discorso, punta sia a tranquillizzare i timori dei senatori più restii ad un allargamento delle proprie fila sia a giustificare i fini politici del provvedimento: Roma, infatti, ha sempre goduto di un ordinamento politico flessibile che le aveva garantito costantemente la capacità di adeguare i propri ordinamenti alle esigenze che si presentavano. Proprio nel guardare le istituzioni come un sistema nel suo insieme dinamico, sottoposto per sua natura a continue evoluzioni, Claudio vi fa riferimento all’inizio (della parte conservata) del suo discorso:
«Per parte mia vi prego innanzitutto di lasciare da parte quella vostra considerazione, che prevedo mi si obbietterà per prima: non abbiate in orrore che sia introdotta questa riforma, perché nuova, ma piuttosto pensate quante cose siano state mutate in questa città, e soprattutto quante forme e stadi le istituzioni abbiano attraversato fin dall’origine della nostra città.»
Dopo aver fatto alcuni circostanziati riferimenti ai continui rivolgimenti a partire dal periodo regio, e a riferimenti alla cultura arcaica ed etrusca (come l’identificazione tra il re Servio Tullio e il guerriero etrusco Mastarna), Claudio si rivolge all’aspetto più generalmente giuridico dei poteri attribuiti alle singole magistrature:
«È necessario che io ora ricordi il potere della dittatura, maggiore di quello stesso dei consoli, che fu escogitato dai nostri antenati per usarne nelle guerre più dure ovvero nelle più difficili sedizioni interne? O i tribuni della plebe, creati in favore della plebe stessa? È necessario che io vi ricordi il potere trasferito dai consoli ai decemviri e, quando successivamente il dispotismo decemvirale si sciolse, tornato di nuovo in mano ai consoli? E che dire del potere consolare, ed eletti sei, spesso otto, alla volta? E gli onori infine estesi alla plebe, non soltanto delle cariche pubbliche, ma anche dei sacerdozi? Se io già narrassi le guerre, dalle quali hanno preso gli inizi i nostri antenati, e dicessi fino a che punto siamo giunti, temo che sembrerei troppo orgoglioso, e che dimostrerei di vantare la gloria di un Impero esteso al di là dell’Oceano. Ma piuttosto tornerò al mio argomento.»
A questo punto Claudio si approssima al proprio specifico argomento, ricordando come già Augusto e Tiberio, uscendo dal confine dell’aristocrazia romana, avessero incluso nel Senato i migliori rappresentanti del mondo italico – designato con la formula coloniarum ac municipiorum -: qui il princeps ne approfitta per rivolgere un complimento ai senatori italici e promettere ulteriori benefici per il futuro:
«Fu senza dubbio per un’innovazione che il mio prozio materno, il divo Augusto, e il mio zio materno, Tiberio Cesare, vollero che in questo Senato comparisse il meglio di tutte le colonie e di tutti i municipi, purché si trattasse di uomini insigni e benestanti. E che dunque? Non è forse da preferirsi un senatore italico ad uno che viene dalle province? Al momento opportuno, quando prenderò a dar prova di questa parte della mia attività di censore, vi mostrerò con i fatti quale sia la mia posizione in merito. Ma ritengo che non si debbano certo respingere i provinciali, nel caso in cui possano portare onore alla Curia»
Nel discutere di senatori che provenissero al di fuori della Gallia Narbonensis (già ammessi), il discorso di Claudio giunge a menzionare proprio Lugdunum (Lione), di cui era egli stesso originario, quindi si avvia alla conclusione e alla peroratio specifica della causa della Gallia Comata, di cui è esaltata la fedeltà:
«Non senza cautele, o padri coscritti, mi sono avventurato al di là dei confini provinciali a voi consueti e familiari, ma ormai devo apertamente perorare la causa della Gallia Comata, riguardo a cui se qualcuno dovesse osservare che per dieci anni costrinsero a combattere il divo Giulio, il medesimo dovrebbe anche considerare d’altra parte la stabile fedeltà e la sottomissione durate cento anni, di cui abbiamo potuto fare più che esperienza nelle diverse nostre crisi di governo. Furono loro ad offrire, restando quieti, una pace tranquilla e sicura alle spalle di mio padre Druso che stava sottomettendo la Germania, e proprio quando egli era stato chiamato alla guerra mentre stava organizzando il censo, operazione nuova e inconsueta per i Galli.»
Nel test originale di Claudio, dunque, è possibile cogliere da un lato una precisa direttiva di stampo ideologico, che non manca di riscontri (rifarsi alle prime origini e trovare negli inevitabili mutamenti delle cose la giustificazione delle proprie riforme); dall’altro lato uno stile oratorio che sfora in punte di umorismo o colloquiali, puntando inoltre con attenzione alla situazione contemporanea: Claudio, ad esempio, cerca di accattivarsi il favore dei senatori (italici) con complimenti; in altri passaggi allude a individui ben noti con toni diversi (rispettivamente definendo “ladro” un senatore di Vindobona, e scherzando con un altro in merito al suo epiteto “barbaro” di Allobrogicus). Nell’incontro tra una visione politico-culturale piuttosto ampia e di immediatezza politica, il discorso di Claudio si rifà a quelli riportati dalle fonti storiche letterarie (note all’imperatore, appassionato di storia).
La versione degli Annales di Tacito
Il confronto con la Tavola di Lione ha permesso anche di comprendere come si sia comportato Tacito in quella che potremmo definire, secondo la consuetudine storiografica romana, una vera e propria reinterpretazione. Le parole di Claudio trovano scarsa corrispondenza nel testo di Tacito, che si sforza soprattutto di spiegarne il concetto fondamentale. Su di esso, Tacito svolge un lavoro autonomo nella scelta degli exempla e delle immagini, oltre che nello stile, ossia non facendo venire meno quegli elementi di essenzialità che sono propri degli Annales. Solo verso la fine del capitolo si ha un avvicinamento di Tacito all’originale di Claudio, nel recuperare uno tra i punti fondamentali usati come argomentazione dall’imperatore, cioè la pace rispettata nel tempo dalla Gallia Comata. La situazione istituzionale di Roma è solo brevemente accennata (in Claudio è molto dettagliata) e si chiude con una riflessione relativa all’utilizzo della tradizione come successione di innovazioni.
«Anche questo invecchierà, e ciò che oggi giustifichiamo con gli esempi del passato, sarà a sua volta d’esempio» (IX, 24, 7)
Isolando il fondamento ideologico del discorso di Claudio, Tacito dunque ne amplifica la portata e la vitalità, a cui la storia successiva non avrebbe dato che ulteriori conferme.
Risvolti storico-politici. Vediamo ora i risvolti politici. Cosa accadde precisamente con l’inclusione approvata da Claudio? Stando a Tacito, soltanto gli Edui ebbero il privilegio di essere inclusi nel Senato: questa informazione sembrerebbe essere confermata dalle informazioni giunte fino a noi che indicano che nella seconda metà del I secolo d.C. il numero dei senatori proveniente dalla Gallia Comata restò relativamente basso, e solo dopo tale periodo i dati ne mostrano un graduale aumento (e una maggiore integrazione). Dopo tutto anche nei ranghi degli eserciti, i provinciali già sotto Claudio e Nerone dovevano essere in maggioranza e furono sempre di più fino al III secolo. Nel Senato, infine, gli Italici mantennero una stretta maggioranza ancora durante l’età degli Antonini, ma furono superati in numero dopo Caracalla.
Tra il testo originale di Claudio e quello rielaborato degli Annales di Tacito vi è quindi un forte nesso ideologico di continuità e comprensione, motivato di più in un autore come Tacito, che era personalmente testimone e attore (essendo senatore) di una nuova unità politica sovranazionale, ma ugualmente bisognosa della forza e della legittimità derivanti dalla sua tradizione.
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